1. Premessa

Gli anniversari, si sa, costituiscono sempre ghiotte occasioni per tornare a riflettere sui fatti del passato, e lo sono vieppiù quando essi si presentano con la forza o la seduzione di quella che potremmo definire una loro “rotondità”.

Certo, tale attrattiva porta con sé il rischio di sovrabbondanza che spesso produce in chi legge una qualche forma di stanchezza generata proprio da quell’inevitabile eccesso di “offerta commemorativa”, ed è quello che potrebbe accadere per la ricorrenza dei cento anni dalla Marcia su Roma.

Ma il fatto che in questo stesso 2022 ricorrano anche i sessant’anni dall’uscita del film La marcia su Roma, offre l’opportunità di dedicarsi al centenario affrontandolo “lateralmente”, cioè riflettendo e valutandolo il film per quello che può comunicare oggi al pubblico e anche per un suo possibile uso didattico, tanto più auspicabile quanto meno paludato, e proprio per questo più accattivante per gli studenti o comunque per i non specialisti.

2. Commedia e “commedia all’italiana”

Per accostarci dunque alla visione del film di Dino Risi, ritengo utile svolgere qualche riflessione preliminare su alcuni tratti distintivi della tragedia e della commedia, concentrandomi, però, sul rapporto tra individuo e società che in esse si instaura.

Nella tragedia classica si narra della definitiva separazione del protagonista (l’eroe) dalla società: il tragico nasce infatti da una espulsione, dalla frattura tra l’individuo, portatore di una colpa che ne caratterizza inequivocabilmente la figura, e il mondo a cui prima egli apparteneva.

Vi è inoltre una frattura anche tra ciò che viene narrato sulla scena e il pubblico: l’evento tragico è unico e irripetibile, avviene una volta per tutte, è quindi lontano dal presente-banale vissuto e incarnato dal pubblico. La grandezza e la terribilità della tragedia stanno anche in questa distanza. L’uscita tragica dalla società coincide con la spersonalizzazione, il tramonto del tragico combacia con l’aurora della modernità: è la rappresentazione di un’età conclusa.

La commedia, invece, fa dell’anonimato una forma estetica: il suo protagonista, spesso inconsapevole, è il soggetto qualunque, talmente poco individuo da dissolversi nel “tipo”, nella maschera. Qui, inoltre, la vita quotidiana diventa un modello e una fonte per la rappresentazione, mentre l’azione si svolge in un tempo mai concluso, in un “imperfetto sociale”. Laddove la tragedia mostra il dramma dell’espulsione avvenuta in un tempo definito e non più recuperabile, la commedia racconta il tema sempre vivo e presente dell’ingresso faticoso e frustrante dell’individuo nella società, presentandoci nelle pieghe più quotidiane la dialettica minuta tra singolarità e collettività.

Il tono “basso” e la comicità nascono in primo luogo dal contrasto tra le norme rispettabili e codificate della società e le pulsioni irrefrenabili e spesso inconfessabili del soggetto, tra i modelli di comportamento proposti e gli scarti individuali; in secondo luogo, dallo smascheramento della falsità e della ipocrisia di questi valori stessi che costringono il soggetto a adattarsi rinunciando a qualsiasi pregiudizio morale. L’ingresso in società è dunque possibile solo attraverso una manipolazione del soggetto, più o meno inconsapevolmente accettata: le pulsioni si trasformano in desideri realizzabili all’interno delle convenzioni sociali, mentre i personaggi vengono costretti ad una flessibilità psicologica, morale, comportamentale.

Quanto sin qui detto in linea astratta può costituire un utile viatico alla riflessione su quel particolare filone cinematografico che prende il nome di “commedia all’italiana”, che si colloca nel punto di intersezione tra tragico e comico.

Che cosa si intende per Commedia all’italiana? […] un certo tipo di satira, di costume e anche, seppure non sempre esplicitamente, politica, dall’impianto realistico e molto attenta ai fatti del giorno, con qualche puntata nella storia “scomoda” del Paese. I suoi soggetti sono di regola […] storie che si sarebbero potute trattare anche tragicamente […] in grandissima parte alla commedia di questo tipo è affidata la sopravvivenza del tema fondamentale del neorealismo, il commento-denuncia dei mali della società contemporanea. La chiave comica, talvolta comico-amara, consentì di raggiungere quel gran pubblico che al neorealismo in Italia aveva sempre voltato le spalle. Consentì inoltre […] di aggirare l’ostacolo della censura, la quale, molto attiva negli anni Cinquanta e anche nei primi Sessanta, infieriva contro gli autori “seri” […] ma si mostrava tollerante con i film comici [D’Amico 2008, p. 127].

La formula, coniata con un significato spregiativo, all’inizio voleva sottolineare la differenza di questo nuovo genere con il neorealismo, che era invece caratterizzato da un forte impegno sociale e morale. Oggi invece si riconosce che tra i due filoni ci sono evidenti legami di continuità: la “commedia all’italiana” si discosta infatti nettamente dalla commedia leggera e disimpegnata e dal filone del cosiddetto “neorealismo rosa” (in voga fino a tutti gli anni Cinquanta), poiché, proprio assumendo la lezione del neorealismo, si basa su una scrittura, ironica sì, ma decisamente aderente alla realtà. Infatti accanto alle situazioni comiche e agli intrecci tipici del genere tradizionale, affianca sempre una pungente e talvolta amara satira di costume, che riflette l’evoluzione della società italiana di quegli anni (il boom economico, le conquiste sociali, ecc.) in cui ebbe luogo un mutamento radicale della mentalità e del costume (anche sessuale) degli italiani, la nascita di un nuovo rapporto con il potere e con la religione, la ricerca di nuove forme di emancipazione economica e sociale, nel mondo del lavoro, della famiglia e nel matrimonio, tutte tematiche che si rintracciano nei film appartenenti a questo filone [Grande 2002].

L’espressione “all’italiana”, mutuata dal film di Pietro Germi Divorzio all’italiana, viene riferita sia al tema trattato in queste opere, sia alla struttura dell’opera stessa: l’argomento è il vivere quotidiano che è commedia, dove i protagonisti sono costretti a recitare una parte, a mettere in atto quell’“arte di arrangiarsi” che viene tradizionalmente attribuita agli italiani: in questo risolvere i problemi “all’italiana” si vede il risultato dello scollamento storico tra individuo e società, collettività e istituzione, Paese e storia; la struttura dell’opera, vista come esaltazione di questo modo di vivere “anarchico”, sembra segnalare una adesione, spesso giudicata eccessiva, del cinema ad una realtà antieroica, all’adattamento al dato, alla rinuncia all’utopia.

In realtà queste accuse vanno fortemente ridimensionate, visto che, perlomeno nei capolavori della stagione d’oro di questo genere, non vi è affatto un compiacimento nella rappresentazione di questa arte della truffa a carattere nazionale. Vi è piuttosto il tentativo di comprendere, attraverso una ricerca sociologica e storica, l’origine dello scollamento irrisolvibile tra individuo e società; vi è anche una rappresentazione drammatica dell’inevitabile fallimento in cui incorrono i protagonisti che cercano di superare questa frattura. Gli “eroi” (o, se si vuole, “antieroi”) della “commedia all’italiana”, infatti, falliscono disastrosamente nei loro tentativi di essere ricompresi nella società, o a causa di un eccesso di adesione alle norme societarie (il mascheramento), o per via di una incapacità testarda di adattamento che svela i compromessi e le falsità (la vanteria millantatrice). La “commedia all’italiana” è dunque una “epopea dello scacco”, l’epica del vivere senza più centro né periferia. Si tratta quindi di un altro tipo di “realismo”, che permette la comprensione del reale avvicinandolo al quotidiano attraverso la deformazione della caricatura.

Forse, e più propriamente, la caratteristica più evidente della “commedia all’italiana” è la mescolanza del comico con l’epico-tragico: vi è infatti sempre un sentimento epico che fa da sfondo alla commedia, la rende grandiosa (a suo modo) e spietata, divertente e nello stesso tempo drammatica man mano che si avvicina insensibilmente, ma inevitabilmente, al suo finale tragico.

La “commedia all’italiana”, infatti, pur mantenendo le caratteristiche del genere (e cioè la narrazione dei tentativi di ingresso dell’individuo nella società), dà una interpretazione più impietosa della cultura dell’adattamento sociale. La società a cui il singolo è tenuto a adeguarsi è cinica, falsa, conformista, sbandiera valori a cui per prima non crede; i protagonisti sono soggetti senza destino, sbandati, privi di punti di riferimento, che fanno dell’arte di arrangiarsi l’unico valore possibile della loro esistenza. La capacità di cavarsela ad ogni costo acquista allora una nuova drammaticità, non è più inganno e raggiro, ma diventa l’unica grandiosa possibilità per il singolo di affermare la propria individualità, in contrapposizione al generico sentire di una comunità inerte.

Questo è tanto più vero quando lo sfondo collettivo è rappresentato dalla storia nazionale, priva di un tessuto identitario e portatrice di disgregazione più che di collante.

Non è un caso che molte commedie siano film storici, che vanno a ricercare negli snodi cruciali del passato prossimo (il fascismo, le guerre, le lotte operaie) le origini dei caratteri nazionali. Vi è un accordo dissonante tra storia e commedia, tra la dissoluzione del tessuto nazionale e l’emergere dell’individualità nomade dei nuovi soggetti sociali [Comand 2011].

Infine, si può dire che la “commedia all’italiana” è una forma estetica a valore universale che si interroga sul malessere del soggetto contemporaneo, sulla sua capacità di travestire la crisi mascherandola nella farsa e nel grottesco, sui rapporti tra catastrofe della storia e fallimento dell’individuo.

A completamento di queste note preliminari, e a titolo di mera esemplificazione, individuiamo alcuni titoli di film particolarmente rappresentativi del filone “commedia all’italiana”:

I soliti ignoti di Mario Monicelli (1958);
La Grande guerra di Mario Monicelli (1959);
Il vedovo di Dino Risi (1959);
Tutti a casa di Luigi Comencini (1960);
Divorzio all’italiana di Pietro Germi (1961);
Il federale di Luciano Salce (1961);
Una vita difficile di Dino Risi (1961);
Il sorpasso di Dino Risi (1962);
Il boom di Vittorio De Sica (1963);
I compagni di Mario Monicelli (1963);
I mostri di Dino Risi (1963);
La vita agra di Carlo Lizzani (1964);
Signore e signori di Pietro Germi (1965);
L’armata Brancaleone di Mario Monicelli (1966);
Dramma della gelosia di Ettore Scola (1970);
Vogliamo i colonnelli di Mario Monicelli (1973);
C’eravamo tanto amati di Ettore Scola (1974).

Ognuno degli autori presenti in questo elenco, pur nella sua specifica individualità, costituirebbe un significativo campione del genere in esame, ma qui ci concentreremo su Dino Risi (1916-2008), che, già solo dando una sommaria occhiata a un parziale estratto della sua ricchissima filmografia, potrebbe essere eletto a rappresentante privilegiato (se non vero e proprio maestro) del genere “commedia all’italiana” (e della sua evoluzione):

Il segno di Venere (1955);
Pane, amore e... (1955);
Poveri ma belli (1956);
La nonna Sabella (1957);
Venezia, la luna e tu (1958);
Poveri milionari (1959);
Il vedovo (1959);
Il mattatore (1960);
Un amore a Roma (1960);
A porte chiuse (1961);
Una vita difficile (1961);
La marcia su Roma (1962);
Il sorpasso (1962);
I mostri (1963);
Il giovedì (1964);
Il gaucho (1964);
L’ombrellone (1965);
Operazione San Gennaro (1966);
Il tigre (1967);
Il profeta (1968);
Straziami, ma di baci saziami (1968);
Vedo nudo (1969);
Il giovane normale (1969);
La moglie del prete (1970);
Noi donne siamo fatte così (1971);
In nome del popolo italiano (1971);
Mordi e fuggi (1973);
Sessomatto (1973);
Profumo di donna (1974);
Telefoni bianchi (1976);
Anima persa (1976);
La stanza del vescovo (1977);
Primo amore (1978);
Caro Papà (1979).

Fig. 1. Locandina de “La marcia su Roma”.
Fig. 1. Locandina de “La marcia su Roma”.

Dino Risi, infatti, prima di diventare per caso assistente alla regia di Mario Soldati in Piccolo mondo antico (1941) e poi approdare ad esordi neorealisti e a primi sviluppi comici, già negli anni del liceo (il liceo milanese Berchet) aveva stretto amicizia con Walter Molino, all’epoca già promettente disegnatore del «Bertoldo», e grazie a lui aveva già iniziato a collaborare in qualità di battutista alla rivista satirica diretta da Cesare Zavattini, Giovanni Mosca e Vittorio Metz. Probabilmente fu questa la palestra che lo portò ad approdare con naturalezza alla “commedia all’italiana”, il genere con cui raggiunse la propria maturità artistica. Con essa gli riuscì infatti facile mettere a nudo le contraddizioni del nostro Paese e dei suoi cittadini, grazie alla creazione di un suo linguaggio originale, mordace e bonario insieme, capace di collocarsi a un livello intermedio tra il cinema di genere e quello d’autore [D’Agostini 1995].

3. La marcia su Roma

Tali qualità emergono in quasi tutte le sue pellicole precedentemente ricordate, ma, per le ragioni della ricorrenza del doppio anniversario di cui si diceva all’inizio, qui ci concentreremo su La marcia su Roma, dove tutti gli elementi costitutivi del genere e del cinema di Risi, che si sono enucleati in precedenza, sembrano giungere a un perfetto punto di cristallizzazione.

Innanzitutto, pur trattandosi di un’opera di finzione cinematografica e non di un saggio di analisi storica, il film ha la capacità di far emergere sinteticamente moltissimi elementi caratterizzanti l’ascesa e le contraddizioni del fascismo delle origini, dispiegando aspetti decisamente utili a introdurre il tema a un pubblico non specialista o in ambito scolastico.

Proviamo dunque a sottolinearli, seguendo la trama del racconto.

La vicenda ha inizio nella Milano del 1919, sicuramente dopo il 23 marzo, giorno in cui in piazza San Sepolcro ci fu la fondazione dei Fasci di combattimento e, più probabilmente, dopo il 6 giugno, giorno in cui il programma sansepolcrista venne pubblicato sul mussoliniano «Il Popolo d’Italia» [1].

Fig. 2. Prima pagina de «Il Popolo d’Italia» del 24 marzo 1919.
Fig. 2. Prima pagina de «Il Popolo d’Italia» del 24 marzo 1919.

È qui, infatti, dopo le prime immagini di repertorio che rievocano la Prima guerra mondiale e la sua conclusione, che incontriamo l’ex combattente senza arte né parte Domenico Rocchetti (Vittorio Gassman), che ha fatto la Grande guerra soltanto perché coscritto, il quale, fingendo di riconoscere nei passanti benvestiti i suoi ex ufficiali, mendica un aiuto per i suoi trascorsi bellici millantando un passato “glorioso” di combattente che ha versato sangue per la Patria ed esibendo, a riprova, una falsa medaglia al valore e delle presunte ferite di guerra.

In questo breve incipit viene tratteggiato un vasto e complesso affresco storico-sociale dell’Italia del dopoguerra, in cui scorgiamo il fenomeno del reducismo di guerra cui il fascismo fu debitore di non poche delle proprie iniziali fortune politiche: l’impoverimento della popolazione, la disoccupazione, il malcontento dei fanti che stentavano a trovar posto nella vita civile, e quello della borghesia urbana conseguente al montante successo delle rivendicazioni economiche e sociali del proletariato [Vivarelli 1991].

Nel corso della sua questua, per puro caso Rocchetti/Gassman s’imbatte, però, proprio in un suo vecchio ufficiale, il capitano Paolinelli (Roger Hanin), il quale, dopo averlo schiaffeggiato per il suo fingersi eroe di guerra, lo convince, avendo constatato l’effettiva indigenza nella quale il reduce versa, ad aderire all’appena costituito movimento fascista, presso cui Paolinelli ricopre un ruolo di rilievo, asserendo che il neonato movimento ha a cuore proprio i reduci bisognosi come Rocchetti e che intende porre rimedio agli sconquassi e alla miseria sopravvenuta nonostante l’esito vittorioso del conflitto.

Anche la figura del capitano Paolinelli rappresenta un ulteriore tassello che arricchisce l’affresco iniziale: il suo ingresso in scena, infatti, aggiunge al quadro il malessere di quella classe (specialmente gli ufficiali) che nella guerra aveva avuto un ruolo di comando e che all’indomani della sua conclusione si sentiva deprezzata e per questo disadattata nella nuova condizione di pace [Crainz 2007].

Portato con sé Rocchetti in trattoria, Paolinelli gli consegna il programma approvato alla costituzione, il 23 marzo 1919 in Piazza San Sepolcro, del movimento dei Fasci italiani di combattimento dove spiccavano istanze antimonarchiche, anticlericali, anticapitaliste (con le quali il nascente movimento tentava di far concorrenza alle istanze rivoluzionarie promosse nelle classi più deboli dal successo della Rivoluzione russa). Subito conquistato, con miraggi di riscatto, l’insoddisfatto reduce Rocchetti Domenico, viene reclutato a supporto di Paolinelli e del fascismo nella campagna per le elezioni politiche del 16 novembre 1919. Ma le camicie nere non sono per nulla ben viste dai contadini (parecchi di loro, socialisti oppure anarchici, militano nelle leghe bracciantili che proprio coi fascisti si sono spesso e volentieri fronteggiate durante le lotte sociali contro il latifondo), che prendono dunque ad azzuffarsi con gli squadristi. Rocchetti, com’è nella natura cialtronesca del personaggio, se la dà a gambe e si rifugia in una stalla dove viene però sorpreso ed aggredito da un contadino, che si rivelerà il suo ex compagno di trincea Umberto Gavazza (Ugo Tognazzi). Nonostante la contrapposizione ideologica, memore del vecchio cameratismo, Gavazza lo vorrebbe ospitare a spese del cognato (Giampiero Albertini), un convinto socialista antifascista, che in nome di tali ideali, non appena si accorge che Rocchetti era tra i fascisti con cui si era scontrato poco prima, caccia di casa entrambi.

Gavazza, in realtà, è un simpatizzante del cattolico Partito popolare, ma si fa pure lui convincere dal programma del movimento fascista, in particolare dalla promessa della redistribuzione delle terre incolte ai contadini, entrando così a far parte delle camicie nere.

Nella sua scelta paiono dunque tratteggiate nel film le responsabilità dei cattolici che videro nel fascismo un argine contro il socialismo [Miccoli 1973].

Inoltre, in questa sequenza emergono diversi aspetti importanti: in primo luogo c’è il tema della violenza e dello scontro che caratterizza il cosiddetto “biennio rosso”, cioè il periodo 1919-1920, segnato da mobilitazioni contadine, tumulti annonari, manifestazioni operaie, occupazioni di terreni, culminato con l’occupazione delle fabbriche nel settembre 1920. In secondo luogo, nella sequenza viene anche precisato il malcontento dei reduci che vedevano tradite le promesse di redistribuzione delle terre fatte dopo la disfatta di Caporetto dal governo guidato da Vittorio Emanuele Orlando.

Ma l’esito fallimentare delle elezioni, che vide il movimento fascista ottenere a malapena 4.000 voti, induce a un cambiamento di strategia: viene abbandonata la linea parlamentarista ed elettorale e viene abbracciata quella violenta ed eversiva.

I due amici si trovano così, assieme ai loro camerati, a adoperarsi per far fallire uno sciopero dei netturbini milanesi, spazzando le strade al loro posto, nel tentativo di “imporsi nelle piazze” e conquistare la borghesia moderata (che infatti nella scena solidarizza coi fascisti) attraverso la promessa di ripristinare l’ordine sociale che, a loro modo di vedere, sarebbe turbato dalle lotte operaie e contadine. Netturbini e fascisti però finiscono per arrivare allo scontro fisico, interrotto dall’intervento dei carabinieri a cavallo, uno dei quali viene colpito per errore da una ramazzata di Rocchetti. Arrestato, processato e condannato insieme a Gavazza, i due vengono messi in galera, ma verranno liberati, dopo un tempo imprecisato, dagli squadristi che, senza che la polizia cerchi nemmeno di fermarli, prenderanno d’assalto le carceri.

Nella sequenza tornano temi già emersi (e sui quali dunque non ci soffermeremo) ma se ne aggiunge uno nuovo e importante: quello del comportamento degli organi di polizia e della giustizia. Se, infatti, nel 1919 un giudice poteva ancora condannare la violenza squadrista, durante il periodo imprecisato che Rocchetti e Gavazza trascorrono in galera le cose sono cambiate, tanto che le simpatie per il fascismo, diventato partito dal novembre 1921, ormai diffuse tra gli uomini della forza pubblica portano a comportamenti di indulgenza, quando non di connivenza, nei confronti delle loro azioni illegali. Nell’assalto alla sede operaia di un paese, ad esempio, ascoltiamo un carabiniere rivolgersi al proprio superiore segnalando: «Brigadiere, non hanno il porto d’armi!»; e ricevendone per tutta risposta uno stizzito: «E allora?».

Esaurita la forza propulsiva del “biennio rosso”, il Partito fascista ha dunque deciso di prendere il potere con la forza e progetta di marciare, dapprima simbolicamente poi militarmente, sulla Capitale, come infatti avverrà al culmine di un “biennio nero” (1921-1922) segnato, da un lato, da assalti e violenze contro sedi di leghe, sindacati, partiti, giornali, singoli oppositori; dall’altro da un avvicinamento alla Chiesa, alla monarchia, all’esercito, ai possidenti agrari e gli industriali del Nord (e trovando anche nel governo Giolitti una certa accondiscendenza opportunista), tanto che alle elezioni del maggio 1921 Mussolini si presenta con il blocco nazionale dei liberali, riuscendo stavolta a far eleggere 35 deputati.

Comincia così nel film una tragicomica avventura on the road dei due ex commilitoni fattisi camerati per opportunismo, ma mano a mano che procedono verso Roma si mostra loro il vero volto del fascismo, che tradisce, uno alla volta, tutti i principi sbandierati all’atto della sua fondazione. Tra questi l’abolizione dei titoli nobiliari e la redistribuzione delle terre ai contadini, accettando i finanziamenti di agrari, industriali e notabilato, ai cui interessi, di fatto, si subordina, come esplicita la sequenza del sequestro dell’auto a un ricco proprietario terriero che si rivelerà poi uno dei finanziatori del partito.

E così Gavazza dal programma del 1919, che ha scrupolosamente conservato sin dal primo incontro con Rocchetti, depenna di volta in volta le promesse che vi erano scritte e che vengono tradite, e si mostra sempre più scettico su quel che è chiamato a fare, constatando non solo l’incoerenza tra le dichiarazioni di principio e i comportamenti reali, ma anche il progredire della violenza reazionaria, via via più manifesta, in un crescendo di spedizioni punitive verso tutti coloro che hanno ostacolato o potrebbero ostacolare il partito.

Tra questi c’è anche il giudice che aveva condannato Rocchetti e Gavazza, così che i due si incaricano della sua punizione, ma paradossalmente riceveranno dall’anziano uomo di legge una lezione politica e morale che costituisce un po’ il centro ideologico di tutto il film [2].

Oltre che mettere in scena il ruolo di un resistente antifascismo e articolare una profezia sulle conseguenze della perdita di libertà, la sequenza tiene costantemente in primo piano i due elementi costitutivi della violenza squadrista: il manganello e l’olio di ricino.

Ma a inquadrare ancor meglio tale componente di bruta violenza c’è la figura di un altro personaggio: Marcacci (Mario Brega), detto “mitraglia”, che guida con piglio tipicamente e ottusamente fascista la scalcinata squadra cui sono aggregati Rocchetti e Gavazza.

Proprio lui, infatti, quando tutta l’adunata delle camicie nere è ormai alle porte di Roma (28 ottobre 1922), bloccata momentaneamente dall’intervento del Regio esercito, arriva a uccidere un ferroviere che vorrebbe impedire ai camerati di forzare il portellone di un vagone per passarci la notte al riparo. Questa, però, è la goccia che fa traboccare il vaso, e il mite Gavazza, disgustato da tutto ciò, decide di abbandonare i ranghi. Sorpreso però da Marcacci, viene da lui percosso duramente, tanto da indurre a intervenire in suo aiuto l’inseparabile Rocchetti, il quale mostra così a sua volta di aver finalmente capito la vera natura del fascismo [3].

I due amici quindi si allontanano fisicamente e simbolicamente dallo squadrismo, e, posti di fronte al bivio «o Roma o Orte» (una parodia del grido di guerra dei garibaldini all’Aspromonte (1862) e Mentana (1867): «O Roma o morte»), rinunciano a concludere la marcia.

Dopo una piccolissima ellissi, ritroviamo i due la mattina del 31 ottobre mentre assistono, in abiti borghesi, come semplici e un po’ scettici spettatori, alla sfilata delle camicie nere davanti al re, Vittorio Emanuele III, che, rivolto a Paolo Thaon di Revel, chiede: «Ammiraglio, spassionatamente, cosa ne pensa di questi fascisti? Crede che mettiamo il Paese in buone mani? Mi dica fuori dai denti qual è il suo parere, perché siamo ancora in tempo a sbatterli fuori, néh!». «Spassionatamente, Maestà, mi sembra gente seria». «Ma sì, proviamoli per qualche mese» [4].

4. Conclusione

Come si è visto, dunque, sotto la veste tragicomica di una tipica “commedia all’italiana” il film presenta una ricostruzione satirica ma efficace dell’avvento del fascismo [5].

La marcia su Roma, infatti, si avvalse del meglio che all’epoca quel genere offriva: a partire dalla sceneggiatura, scritta a più mani tra cui quelle “d’oro” di Age e Scarpelli oltre a quelle di Ettore Scola e altri. I due attori principali, poi, Gassman e Tognazzi, sono, al solito, straordinari nell’interpretare personaggi dai tratti ben delineati e assolutamente esemplificativi per farci comprendere, splendidamente aiutati in ciò da una galleria di comprimari e comparse, la “fisionomia” tipica di chi, storicamente, divenne preda della retorica fascista [Giacovelli 1990].

Soprattutto essi impersonano, come è nello stilema del castigat ridendo mores proprio della “commedia all’italiana”, pregi e difetti dell’italiano medio: pigro, furbo e un po’ cialtrone il personaggio di Gassman; onesto, umile e buono quello di Tognazzi; entrambi restii alla violenza e un po’ vigliacchi.

Ma pur nella loro imperfezione i due protagonisti non potranno accettare a lungo i metodi sempre più inquietanti che sono chiamati a rispettare.

La marcia su Roma è un film divertente e spassoso, ma che in più riesce, in poco più di 90 minuti, a raccontarci un capitolo di storia che ha segnato per un lungo periodo la vita e il destino del nostro paese e di centinaia di migliaia di individui.

Nel suo svolgimento si ritrovano alcune delle acquisizioni della più recente storiografia, come ad esempio quella che fa della Marcia su Roma contemporaneamente il punto di arrivo di una fase violenta e il punto di partenza di una ventennale dittatura [Albanese 2022; Gentile 2012].

Non solo: mette sotto la lente (seppur deformandola nella rappresentazione comico-grottesca) le responsabilità storiche di chi era chiamato a fermare ciò che poteva ancora essere fermato.

Tuttavia, il film non si esaurisce nel valore di documento di satira politica, ma sa allargarsi fino a rappresentare una più ampia satira di costume sociale e quasi di definizione del “carattere nazionale” – e forse qui poggia la tentazione di leggervi un’allusione a una sorta, se non di «fascismo eterno» degli italiani [Eco 2018], certo di un loro «immarcescibile conformismo».

Infatti la rappresentazione che Risi fa del fascismo, a quarant’anni dall’evento che racconta e a 17 dalla sua tragica conclusione, dopo sessant’anni sembra reggere bene il confronto con il trascorrere del tempo sia nei termini della sua rappresentazione come fenomeno storico (ancorché deformato dal ghigno della satira) sia in quelli di autorappresentazione degli italiani e dell’Italia (si pensi ai lavori di Filippo Focardi [Focardi 2020] e, a livello divulgativo, di Francesco Filippi [Filippi 2019]). In fondo, i due protagonisti, confusi nel finale tra la folla plaudente, nascondono conformisticamente e opportunisticamente il proprio dissenso e, come tanti italiani, avrebbero atteso 23 anni prima di poter di nuovo esprimerlo (lo spettatore, infatti, non riesce a immaginarli capaci di una scelta drastica come quella resistenziale).

Dietro l’apparente facilità e leggerezza del film, inoltre, si celano rimandi colti e raffinati, come, ad esempio, l’allusione ad Animal farm di George Orwell, pubblicato nel 1945, e uscito in Italia, col titolo di La fattoria degli animali, nel 1947: il progressivo depennamento dei vari punti del programma di San Sepolcro, operato da Gavazza/Tognazzi nel corso della vicenda, rimanda infatti abbastanza scopertamente alla costante alterazione dei sette comandamenti enunciati dopo la cacciata di Mr. Jones dalla fattoria.

Dino Risi, insomma, come in tante altre occasioni, regala agli spettatori molte risate che però prendono spesso una piega amara di fronte a situazioni e sequenze tutt’altro che comiche per la vita delle persone, per la storia d’Italia e per quella dell’Europa, che val bene la pena di non smettere di studiare anche dopo oramai cento anni.

5. Filmografia su fascismo e Marcia su Roma

A noi!, diretto da Umberto Paradisi, Italia, 1923, http://camera.archivioluce.com/camera-storico/scheda/video/i_presidenti/00026/IL3000094233/1/ANoi.html. Lungometraggio documentario realizzato ad appena dieci giorni dalla Marcia su Roma;

Il grido dell’aquila, diretto da Mario Volpe, Italia, 1923. Primo film di stampo propagandistico dell’epoca fascista, in quattro episodi, prodotto dall’Istituto fascista di propaganda nazionale;

Camicia nera, diretto da Giovacchino Forzano, Italia, 1933, https://youtu.be/Z-aCzRpbYjQ. Film girato in occasione del decennale della Marcia su Roma, rappresenta le vicende italiane dal 1914 al 1932, secondo l’interpretazione del regime;

Vecchia guardia, diretto da Alessandro Blasetti, Italia, 1934, https://youtu.be/jc3kqhSC06I. Ambientato nella Viterbo del 1922, ricostruisce il clima che precedette la Marcia su Roma;

Marcia su Roma, diretto da Mark Cousins, Italia, 2022, https://youtu.be/HuLoK5DHBgM. Presentato al Festival di Venezia 2022, disseziona A noi! di Umberto Paradisi, sottoponendolo a una rilettura filologica attualizzante.

Bibliografia

  • Albanese 2022
    Giulia Albanese, La Marcia su Roma, Roma-Bari, Laterza, 2022 (ed. or. 2006).
  • Baravelli 2022
    Le origini del fascismo in Emilia-Romagna 1919-1922, a cura di Andrea Baravelli, Bologna, Pendragon, 2022.
  • Caprara 1993
    Valerio Caprara, Dino Risi. Maestro per caso, Roma, Gremese, 1993.
  • Comand 2011
    Mariapia Comand, Commedia all’italiana, Milano, Il Castoro, 2011.
  • Crainz 2007
    Guido Crainz, L’ombra della guerra, Roma, Donzelli, 2007.
  • D’Agostini 1995
    Paolo D’Agostini, Dino Risi, Milano, Il Castoro, 1995.
  • D’Amico 2008
    Masolino D’Amico, La commedia all’italiana. Il cinema comico in Italia dal 1945 al 1975, Milano, Il Saggiatore, 2008 (ed. or. 1985).
  • De Bernardi, Guerracino 1998
    Il fascismo. Dizionario di storia, personaggi, cultura, economia, fonti e dibattito storiografico, a cura di Alberto De Bernardi, Scipione Guarracino, Milano, Bruno Mondadori, 1998.
  • De Felice 1995
    Renzo De Felice, Mussolini il fascista. La conquista del potere 1921-1925, Torino, Einaudi, 1995 (ed. or. 1966).
  • De Luna 2011
    Giovanni De Luna, La Repubblica del dolore. Le memorie di un’Italia divisa, Milano, Feltrinelli, 2011.
  • Di Pierro 2012
    Antonio di Pierro, Il giorno che durò 20 anni, Milano, Mondadori, 2012.
  • Eco 2018
    Umberto Eco, Il fascismo eterno, Milano, La nave di Teseo, 2018.
  • Filippi 2019
    Francesco Filippi, Mussolini ha fatto anche cose buone. Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo, Torino, Bollati Boringhieri, 2019.
  • Filippi 2020
    Francesco Filippi, Ma perché siamo ancora fascisti? Un conto rimasto aperto, Torino, Bollati Boringhieri, 2020.
  • Focardi 2020
    Filippo Focardi, Nel cantiere della memoria. Fascismo, Resistenza, Shoah, foibe, Roma, Viella, 2020.
  • Gentile 2012
    Emilio Gentile, La Marcia su Roma. E fu subito regime, Roma-Bari, Laterza, 2012.
  • Giacovelli 1990
    Enrico Giacovelli, La commedia all’italiana. La storia, i luoghi, gli autori, gli attori, i film, Roma, Gremese, 1990.
  • Grande 2002
    Maurizio Grande, La commedia all’italiana, Roma, Bulzoni, 2002.
  • Isnenghi 1997
    I luoghi della memoria. Strutture ed eventi dell’Italia unita, a cura di Mario Isnenghi, Roma-Bari, Laterza, 1997.
  • Lanaro 1992
    Silvio Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana. L’economia, la politica, la cultura, la società dal dopoguerra agli anni ’90, Venezia, Marsilio, 1992.
  • Lussu 1945
    Emilio Lussu, Marcia su Roma e dintorni, Torino, Einaudi, 1945 (ed. or. 1931).
  • Mazzetti 2008
    Irene Mazzetti, I film di Dino Risi, Roma, Gremese, 2008.
  • Miccoli 1973
    Giovanni Miccoli, Chiesa e società in Italia dal Concilio Vaticano I (1870) al pontificato di Giovanni XXIII, in Storia d’Italia, vol. V, II, a cura di Ruggiero Romano, Corrado Vivanti, Torino, Einaudi, 1973, pp. 1493-1548.
  • Mondini 2022
    Marco Mondini, Roma 1922. Il fascismo e la guerra mai finita, Bologna, Il Mulino, 2022.
  • Ticozzi 2016
    Alessandro Ticozzi, Dino Risi, l’Italia in analisi, Ravenna, Sensoinverso, 2016
  • Vivarelli 1991
    Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo. L’Italia dalla Grande guerra alla marcia su Roma, Bologna, Il Mulino, 1991.

Note

1. La ripresa del nostro movimento. L’imponente “Adunata” di ieri a Milano, in «Il Popolo d’Italia», 24 marzo 1919. Il programma di San Sepolcro è riprodotto al link: https://it.wikisource.org/wiki/Programma_di_San_Sepolcro.

2. https://youtu.be/fOrOkdTJmTY.

3. https://youtu.be/VuhjiYWC4OQ.

4. https://youtu.be/QiWpnLGdvfg.

5. Sulla specifica situazione regionale segnalo qui la recentissima pubblicazione Le origini del fascismo in Emilia-Romagna 1919-1922, a cura di Andrea Baravelli [Baravelli 2022], frutto di una originale ricerca promossa dalla Rete degli Istituti storici della Resistenza e dell’età contemporanea in Emilia-Romagna, confluita anche nel portale https://originifascismoer.it/.