Al Dipartimento di Storia culture civiltà, il 29 febbraio 2020 era tutto pronto per accogliere la giornata della Public history in Emilia-Romagna. Un appuntamento atteso e che portava con sé aspettative piuttosto alte, dopo l’ottima riuscita degli altri due incontri su base regionale promossi da enti e associazioni del territorio di concerto con l’Associazione italiana di public history (Aiph)1.

L’idea era nata dall’impulso di tre riviste attive sul territorio emiliano-romagnolo, anche se con declinazioni differenti: «Clionet», «Diacronie» ed «E-Review». A esse si è aggiunta la preziosa collaborazione e partecipazione dell’ex Istituto dei beni artistici, culturali e naturali, dell’Istituto storico Parri di Bologna, di Mab Emilia-Romagna, del Master universitario di Comunicazione storica di Bologna, del Master di Public history dell’Università di Modena e Reggio Emilia e dell’Associazione PopHistory, oltre che di Aiph.

Fig. 1. Locandina de La Public History in Emilia-Romagna.
Fig. 1. Locandina de La Public History in Emilia-Romagna.

Lo scopo della giornata era quello di rintracciare gli aspetti peculiari della disciplina nel territorio e gli elementi di continuità con il contesto nazionale e globale, declinati in molteplici ambiti di studio, interloquendo con numerosi ospiti, afferenti ai diversi rami in cui opera la Public history in regione. Per far questo, la giornata era stata suddivisa in panel tematici in modo tale da raccogliere attorno ai tavoli di discussione i rappresentanti dei differenti settori: le università e gli enti formativi; gli archivi e le biblioteche; i musei e i luoghi di memoria; l’industria culturale; le associazioni e le start up; le imprese e il mondo del lavoro. Attraverso confronti mirati e specifici, era intenzione degli organizzatori ricondurre le riflessioni delle sessioni a un unico filo narrativo che esplicasse i connotati della Public history in Emilia-Romagna in una sorta di manifesto pubblico, da presentare nel contesto più ampio della conferenza nazionale di Public history.

L’avanzare della pandemia da Covid-19 che ha investito tutto il mondo ha reso necessario sospendere l’iniziativa, ma, malgrado ciò, la domanda di storia e di passato non si è spenta. Anzi, per certi versi è andata progressivamente acuendosi. Per i public historians è diventato fondamentale far fronte a queste nuove condizioni e alle inedite esigenze del pubblico, individuando approcci altrettanto innovativi. Non si è trattato soltanto di cambiare paradigma nel rispondere a una domanda che andava ridefinendosi sia nei contenuti sia – in particolar modo – nelle modalità di fruizione, ma anche di non perdere un’occasione importante per mantenere il confronto attivo su tematiche in continua e rapida evoluzione. Sono molti i soggetti che in Emilia-Romagna si occupano di Public history e che seguono con attenzione i dibattiti sulla disciplina cercando una loro ponderata collocazione2: è quindi una sfida estremamente stimolante e sempre più urgente creare spazi di condivisione e discussione per sistematizzare e valorizzare un mare magnum di esperienze e attività che derivano da anni di lavoro e non si sono arrese davanti all’emergenza sanitaria dovuta alla pandemia da Covid-19.

Ecco perché l’esigenza di organizzare la giornata rimandata a febbraio è verosimilmente diventata via via più cogente, fino a giungere alla sua riproposizione per via telematica.

Accantonando, almeno per questo appuntamento, la modalità per panel di approfondimento già pianificata, si è proceduto con un format più snello, in cui i soggetti organizzatori dell’iniziativa potessero presentare le proprie attività e delineare alcune direttive di lavoro comune preparatorie per una nuova giornata seminariale, in programma per il 2021. Non a caso il titolo scelto per l’incontro, che si è tenuto in videoconferenza sabato 3 ottobre 2020, è stato Quale storia per quale pubblico. Verso la giornata della Public history in Emilia-Romagna. In questa sede, grazie agli interventi di alcuni dei soggetti più attivi sul territorio, si è cercato di sondare quali siano le forme di comunicazione più adatte al dibattito culturale locale, nel tentativo di compiere una fotografia dell’attualità e di tracciare alcune traiettorie trasversali.

Il confronto ha permesso di rilevare punti in comune, delineare strategie di intervento e riflettere su come inserire al meglio le attività e i progetti sul territorio in uno spettro più ampio e globale.

Proprio il rapporto tra storia locale, storia nazionale e storia globale – e il ruolo della Public history in questo processo – è stato uno dei punti salienti dell’incontro, che ha riservato particolare attenzione anche al concetto di patrimonio culturale3, da sempre legato a un altro asse di lavoro e di riflessione fondamentale, ossia quello riferito a festival, mostre, turismo e pratiche per la valorizzazione del paesaggio e delle memorie locali, con un’attenzione anche al ruolo delle Università in cui si studia la (e si forma alla) Public history in questi ambiti. In effetti, l’infinita varietà di patrimonio culturale di cui è ricca la nostra regione permette di intrecciare e collegare un universo di relazioni anche in modo diacronico, congiungendo passato e presente: dalle espressioni artistiche agli oggetti della quotidianità, dalle memorie documentali alla tradizione orale, dagli istituti dedicati alla conservazione e all’esposizione ai monumenti della contemporaneità. È in questo modo che il patrimonio culturale in senso lato permea la nostra vita quotidiana e compito dei public historians è quello di farlo parlare secondo i linguaggi più intelligibili e vicini alla società del proprio tempo4.

Comunità e territori sono tuttavia inseriti in un contesto globale (e globalizzato). È stato quindi inevitabile allargare lo spettro di riflessione verso confini ben più ampi, includendo temi di carattere più generale, a partire dalla madre di tutte le questioni: come ridurre la distanza tra ricerca storica e società?

Si tratta di una domanda ancora più dirompente e urgente nel nuovo contesto sociale disegnato dalla pandemia da Covid-19, che ha enormemente sacrificato proprio la dimensione culturale, ossia la capacità di interpretare la realtà per poter pensare e offrire nuovi strumenti di decodifica sia del presente, sia del passato.

Concentrandoci dapprima sul contenuto, occorre ammettere che il bisogno di storia (o di passato, come è stato obiettato) del pubblico non si è spento in questi mesi, anzi pare aumentato5. L’interesse può essere forse bulimico e superficiale, o ridotto all’ambito dell’intrattenimento, ma è presente e in crescendo. E se da un lato può essere in effetti utile capire quale sia il reale oggetto di questa necessità – se sia appunto la storia, in quanto elaborazione del passato, o il passato stesso – dall’altro è essenziale essere capaci di fornire una risposta qualitativamente alta, scientificamente accurata e al contempo vivace e variegata. In questo senso, come in un metaforico effetto fisarmonica, lo sguardo ritorna all’ambito locale, poiché la distanza tra ricerca e società si accorcia notevolmente se ha come protagonista la storia più vicina al pubblico, una storia che entra nel quotidiano, che suggerisce riflessioni ancora utili nella comprensione dell’oggi, ma anche una storia del territorio, in grado di dare coordinate spazio-temporali e di adattarsi a differenti linguaggi.

Se ci spostiamo poi ad analizzare la forma, una proposta degna di considerazione è quella di abbracciare la cosiddetta “divulgazione colta”, un’espressione dentro la quale la Public history – come disciplina e come insieme di pratiche – può e deve essere protagonista.

Il connubio tra il rigore della ricerca scientifica e la creatività nella trasmissione e condivisione dei contenuti non è più un aspetto accessorio e deve misurarsi con il fatto che l’arena di discussione è ora sì virtuale, ma estremamente combattiva e accanita. È ormai consolidato che il mezzo digitale, nel duplice ruolo di collettore di informazioni ed efficace strumento di knowledge transfer, è il luogo di ricerca, lettura e scambio più frequentato, quindi, ogni divulgatore colto che si rispetti deve capire come interagire con il suo pubblico virtuale non solo fornendo informazioni scientificamente fondate, ma anche destreggiandosi con disinvoltura nei processi che governano il web per insegnare il metodo storico e stimolare a domande critiche. In questo senso, anche la Public history può contribuire alla costruzione di una società “culturalmente” attrezzata all’innovazione e alla diffusione della citizen science (cittadinanza scientifica, che, nel caso della Public history, risponde più al concetto di citizen humanities), intesa come l’impegno nel fornire ai cittadini gli strumenti critici per comprendere e intervenire consapevolmente sulla realtà che li circonda6.

La presenza alla giornata di soggetti quali i Master di Public history e Comunicazione storica ha poi introdotto un ultimo tema, sul quale la riflessione fuori dai nostri confini è in fase piuttosto avanzata mentre da noi fatica a decollare: il rapporto tra Public history e didattica. Per ciò che riguarda nello specifico le esperienze di Public history emiliano-romagnole, è emersa una suggestione intrigante, quella sui luoghi della memoria. In essi la storia esce dalla sua dimensione temporale e continua a essere viva e visibile anche nella contemporaneità del presente. I luoghi, dunque, continuano a “parlare” sia del loro valore simbolico per ciò che vi è accaduto, sia dalla stratificazione che hanno vissuto nel tempo, e inoltre permeano la nostra quotidianità chiedendo una costante relazione con chi abita e frequenta il territorio.

Forti strumenti di coscienza civile e di indagine sulle nostre radici identitarie, i luoghi di memoria devono comunque essere intrecci tra il contesto storico, le fonti e le memorie e, con l’ausilio offerto dalla Public history, permettono di fare esperienza critica grazie a modalità interdisciplinari e a linguaggi vicini alle più giovani generazioni.

Bibliografia

  • Bertella Farnetti, Bertucelli, Botti 2017
    Public History. Discussioni e pratiche, a cura di Paolo Bertella Farnetti, Lorenzo Bertucelli, Alfonso Botti, Milano, Mimesis, 2017.
  • Cauvin 2016
    Thomas Cauvin, Public History. A Textbook of Practice, London, Routledge, 2016.
  • Poselle 2020
    Chiara Poselle, Così la pandemia ha trasformato la fruizione di arte e cultura. E dopo?, in «Econopoly», 24 aprile 2020, https://www.econopoly.ilsole24ore.com/2020/04/24/pandemia-arte-cultura/

Risorse

Note

1 Il 7 maggio 2018, al Polo del ’900 di Torino, era stata inaugurata questa formula di incontro con il convegno La Public history in Piemonte (https://aiph.hypotheses.org/3009), mentre il 20 novembre si era svolta alla Casa della memoria di Milano la giornata La Public history in Lombardia. Un seminario su studi e pratiche (https://aiph.hypotheses.org/4622).

2 Basti pensare, solo a titolo d’esempio, alle fondazioni che tutelano il patrimonio storico e culturale e i luoghi di memoria, agli istituti storici e ai centri di documentazione, agli enti promotori di progetti multimediali, alle biblioteche e agli archivi sia pubblici sia privati, alle associazioni che si confrontano sui temi della didattica della storia e sulle modalità di divulgazione della disciplina.

3 Possiamo definire patrimonio culturale quell’insieme di beni e luoghi, che per particolare rilievo storico, culturale, artistico e naturale sono di interesse pubblico e costituiscono la ricchezza di un territorio e della relativa popolazione. Si tratta di un elemento di assoluto interesse soprattutto a seguito della ratifica da parte dell’Italia della Convenzione di Faro (http://www.unesco.it/it/News/Detail/861), avvenuta soltanto una decina di giorni prima del seminario.

4 Per un approfondimento, si rimanda alla consultazione di PatER - Patrimonio culturale dell’Emilia-Romagna (https://bbcc.ibc.regione.emilia-romagna.it), che raccoglie le risorse digitali costituite dall’ex Istituto culturale dei Beni culturali, liberamente accessibili online.

5 Un’analisi non soltanto storica, ma relativa alla cultura in generale, si può leggere in Poselle 2020.

6 Movimento già estremamente diffuso e consolidato a livello internazionale, la citizen science vanta organizzazioni strutturate e attive in numerosi progetti. Si vedano, a titolo d’esempio, la Citizen science association (https://citizenscience.org/) e la European citizen science association (https://ecsa.citizen-science.net).