1. La seconda Repubblica di Montefiorino: una questione aperta

La zona libera di Montefiorino, sorta nell'estate del 1944, in quella che Battaglia ha indicato come la prima fase delle zone libere [R. Battaglia 1953, 378], costituisce un importante punto di riferimento nella storia dei territori partigiani durante la Resistenza; si tratta infatti di vicende che sembrano essersi inscritte e radicate nella memoria collettiva.

L’esperienza si sviluppa nel periodo che va dal 17 giugno 1944, giorno in cui i partigiani entrano a Montefiorino, al 30 luglio, data in cui i rastrellamenti tedeschi della terza fase dell’operazione Wallenstein hanno inizio. In questo periodo il movimento partigiano mantiene il controllo di una vasta zona montana, corrispondente alla vallata del Secchia, e comprendente 4 comuni modenesi (Montefiorino, Frassinoro, Polinago, Prignano) e 3 reggiani (Villa Minozzo, Ligonchio e Toano). Territorio caratterizzato da una forte tradizione cattolica, nel quale i parroci rivestivano un'influenza determinante anche al livello politico e amministrativo, la zona libera era situata fra due arterie statali di fondamentale importanza per il traffico militare e le comunicazioni dell’esercito tedesco: la Via Giardini, che collega Modena con Pistoia-Firenze e con Lucca-Pisa-Livorno, e la strada statale Reggio Emilia/La Spezia [E. Gorrieri 1970; L. Arbizzani, L. Casali 1970].

In questa sede ci interessa però volgere lo sguardo a ciò che sembra esser rimasto ai margini della memoria collettiva: la presente indagine si apre infatti proprio laddove la storiografia data la fine della zona libera, e cioè a partire dai rastrellamenti dell'estate del 1944. Si tratta di una scelta che muove dalla consapevolezza della distanza tra storia e memoria e al tempo stesso dalla necessità di indagare il complesso interagire di questi due elementi. Ci si occuperà dunque di quella che può esser definita come la seconda fase della zona libera, figlia di un contesto politico-militare ormai distante da quello dell'estate, nel quale a dominare erano l'entusiasmo e l'aspettativa di una prossima liberazione. Si è tentato, attraverso la documentazione e gli importanti studi sulla Resistenza modenese e reggiana, di ricostruire le vicende che investirono i Comuni della zona libera dall'estate 1944 alla liberazione. Si tratta di una ricostruzione che prende le mosse dalla consapevolezza di una memoria di queste vicende tutt'altro che pacificata. A questo proposito è opportuno tener presente che le problematiche connesse alla memoria di Montefiorino appaiono interne ad un orizzonte più ampio di questioni che riguardano la memoria delle zone libere. Frequenti sono state infatti le rappresentazioni trionfalistiche, promotrici di discorsi retorico-celebrativi, in ultima istanza incapaci di dar conto del fenomeno nella sua complessità. Una tendenza che già nella stampa clandestina comunista e azionista muoveva i suoi primi passi [M. Legnani 1969, 47], e che ha trovato il suo riflesso nella storiografia del dopoguerra.

Nel caso di Montefiorino, lo scontro politico si è trasformato in un serrato confronto sulla ricostruzione storica e i caratteri dell’esperienza. I contrasti sorti tra democristiani e comunisti in merito alla gestione della zona libera hanno infatti determinato la costruzione di memorie «diverse». Da una parte la storiografia cattolica - rappresentata in particolare da Ermanno Gorrieri - ha insistito sull'esistenza di una seconda Repubblica di Montefiorino e sulla sua valorizzazione, anzitutto per enfatizzare l'operato dei democratici cristiani in questa fase; dall'altra parte, la storiografia comunista ha negato l'esistenza di una zona libera nella fase autunnale ed ha esaltato la Repubblica di Montefiorino costituitasi in estate a gestione comunista.

L'esistenza di una seconda Repubblica di Montefiorino è divenuta oggetto di una vera e propria polemica storiografica. A parlarne per primo è stato Ermanno Gorrieri, protagonista democratico-cristiano della Resistenza modenese e autore de La Repubblica di Montefiorino. Secondo Gorrieri questa nuova realtà partigiana comprendeva, a differenza dell’esperienza estiva, solo 4 comuni modenesi: ne riconosceva dunque la limitata estensione territoriale, ma poneva l’accento sulle novità connesse alla gestione della vita civile, che in autunno si erano a suo parere realizzate. Questa lettura ha suscitato le critiche di molti protagonisti e studiosi soprattutto di area comunista: in particolare Luigi Arbizzani e Luciano Casali hanno contestato la versione di Gorrieri, mettendo in discussione la stessa esistenza di una seconda Repubblica di Montefiorino. A loro avviso una zona libera con le caratteristiche dell'estate non si diede più, al massimo «ciò che si ripeté fu l'insegnamento di quella esperienza» [L. Arbizzani, L. Casali 1970a, 44]. La smentita di questi studiosi non stupisce però Gorrieri, che in appendice alla seconda edizione del suo libro ritorna sulla polemica, giudicando la negazione dell'esistenza di una seconda Montefiorino un luogo comune della storiografia resistenziale di ispirazione comunista, impegnata a presentare la Resistenza emiliana come un proprio monopolio e dunque reticente nel riconoscimento del ruolo dei democristiani in montagna [E. Gorrieri 1970, 736-745]. Arbizzani e Casali risponderanno ancora a Ermanno Gorrieri nel 1970 con l'intento di chiarire come la loro lettura non fosse dettata da interessi di parte:

Ebbene: sia chiaro che non è esistita una "seconda Repubblica" a Montefiorino, e non perché due ricercatori, 26 anni più tardi si sono messi in testa di negarla, ma perché le condizioni politiche e militari del territorio non erano tali da poter chiamare, a rigor di logica, quella zona, "territorio libero partigiano". Se il Gorrieri vuole definire Repubblica partigiana ogni fetta del territorio nazionale nel quale, per un periodo più o meno lungo e per motivi più o meno accertabili, i tedeschi non abbiano messo piede, e solo per questo, allora l'elenco delle "Repubbliche partigiane" dovrebbe divenire estremamente lungo ed occorrerebbe aggiungere, oltre alla "seconda Repubblica di Montefiorino", la "Prima Zona" modenese con tre mesi di "repubblica", le Valli del Ravennate (ove per 16 mesi i tedeschi non hanno mai messo piede, vivi), le colline a sud di Forlì (sgombre dai tedeschi per 2 mesi), le zone occupate dal Silvio Corbari nell'Appennino tosco-emiliano (dal dicembre 1943 al gennaio 1944), gran parte delle Alpi piemontesi e delle Langhe (in vari periodi), ecc. ecc. [L. Arbizzani, L. Casali 1970b, 83].

L'idea stessa di un territorio controllato dai partigiani, nel quadro della lotta di liberazione, ha portato a parlare di un'anticipazione di pratiche democratiche che invece trovano spazio per realizzarsi solo a guerra conclusa. Le zone libere rappresentano dunque un capitolo complesso all'interno della storia della Resistenza italiana, al quale pare doveroso accostarsi con una serie di accorgimenti. Anzitutto, trattandosi di uno dei vari segmenti della storia della Resistenza, è necessario non slegare la riflessione dal più ampio contesto politico-militare in cui queste vicende si inseriscono. In secondo luogo, data l'eterogeneità del fenomeno, appare di volta in volta necessario il confronto con le specificità locali, dalle quali si evince come – nonostante i tentativi di direzione unitaria dall’alto [1]– non sia possibile parlare di un fenomeno omogeneo. Sembra dunque che la riflessione sulle zone libere ci imponga di tenere insieme direttive centrali e realtà locali, aspirazioni e risultati ottenuti, tenendo presente quegli elementi di arretratezza politica e difficoltà materiale che Legnani ha indicato nei suoi studi come il sottofondo di queste esperienze [M. Legnani 1969, 57]. L'analisi e l'approfondimento delle condizioni reali appare per altro un antidoto imprescindibile per far fronte ad una memoria retorico-celebrativa.

Tanto gli scritti di Gorrieri, quanto quelli di Arbizzani e Casali sembrano interni a questa prospettiva. L'animo di Gorrieri, come lui stesso afferma, è mosso infatti dall'esigenza di far uscire la Resistenza dalle rappresentazioni oleografiche: solo così, presentando la storia nella sua complessità, con le sue luci e le sue ombre, è possibile valorizzare la Resistenza. A colpire positivamente Renzo De Felice è soprattutto lo spirito che anima Gorrieri, l'assenza di qualsiasi concessione alla retorica [De Felice 1970, 730-735]. Se lo stesso Gorrieri ammette il rischio che la Resistenza esca dal suo lavoro ridimensionata, per De Felice questa possibilità non deve spaventare: «se si vuole valorizzare sul serio la Resistenza "per ottenere che essa venga serenamente e obiettivamente apprezzata nei suoi valori morali e civili", questa è oggi la strada obbligata» [De Felice 1970, 732].

Se partire dalla polemica storiografica permette di cogliere alcuni aspetti centrali circa la costruzione del ricordo di Montefiorino, i quali inseriti in un’analisi più ampia possono rivelarsi importanti per una riflessione sulla memoria delle zone libere, questa conduce anche a porsi di fronte al problema dell'esistenza o meno di una «seconda Repubblica di Montefiorino». Soffermarsi sulla fase autunnale, e dunque su ciò che sembra non aver trovato posto nella memoria o meglio, averla divisa, permette di ripensare anche i termini che hanno dominato quella memoria celebrativa e innervato i suoi discorsi. Primo fra questi il termine «repubblica», al quale spesso ci si è riferiti soprattutto in funzione propagandistica. Nel caso dell’esperienza di Montefiorino, il termine non compare mai nei documenti dell'epoca, si parla piuttosto di «zona libera», «territorio partigiano» o ancora, di «distretto di Montefiorino» [L. Arbizzani L. Casali, 1970, 38]. Parlare di repubbliche comprende infatti l’implicita volontà di tramandare la storia delle zone libere come anticipazione delle pratiche democratiche che con la Repubblica si sarebbero affermate, e dunque di fornire una lettura uniformante di esperienze che - come già sottolineato - meritano di essere osservate invece nelle loro specificità. Il termine ha trovato fortuna in ragione del coinvolgimento della popolazione e delle spinte democratiche che si tentarono di realizzare all’interno delle zone libere. Spinte alla partecipazione popolare che secondo Santo Peli nella maggior parte dei casi rimasero però allo stato di semplici utopie [S. Peli 2003, 119]. Anche Massimo Legnani ci mette in guardia nei suoi studi rispetto all'utilizzo del termine, anzitutto in ragione dell'assenza delle diverse voci dell'antifascismo: nella maggior parte dei casi infatti nelle zone libere non era neppure assicurata la presenza e l'azione di un Cln di zona, ed è questo il caso di Montefiorino in cui non si avrà un Cln della montagna per l’intero periodo estivo. L'assenza di un'autorità civile con compiti di governo è il medesimo motivo che spinge Gorrieri a giudicare errato riferirsi alla zona libera dell'estate utilizzando il termine «repubblica».

L'improprietà del nome di Repubblica di Montefiorino, coniato dopo la liberazione, è dimostrata dal fatto che, create le amministrazioni comunali democratiche, non si costituì nessuna autorità civile con responsabilità di governo sulla intera zona liberata [E. Gorrieri 1970, 361].

La presenza di un Cln locale rappresentava per Gorrieri un elemento imprescindibile, tanto che nelle pagine sulla seconda Montefiorino scriverà: «in questo caso si può parlare di "repubblica" in senso più vero e completo: in quanto funzionò, accanto al Comando militare, un organo di governo civile» [E. Gorrieri 1970, 553]. Se nell'estate non c'era un Cln di zona è altresì vero che l'occupazione del territorio di per sé comportava la sua gestione; la lotta usciva di fatto da un campo esclusivamente militare e, proprio nel coinvolgimento della popolazione, era in gioco il suo carattere nazionale. L'insediamento stabile in una zona implicava infatti assumerne la gestione politica, economica e amministrativa, tanto che già durante l'estate si procedette all'organizzazione di elezioni nei Comuni liberati. Queste rappresentano uno spunto interessante che ci permette di cogliere sia le aspirazioni di cui parla Santo Peli, sia la realtà con cui esse dovevano necessariamente fare i conti.

Nel verbale della seduta del 26 giugno 1944 della Giunta di Montefiorino si legge, ad esempio, che questa «rappresenta l'espressione e la volontà del popolo» e «deve riprendere il carattere di autarchia nel senso più lato della parola» [C. Vallauri 2013, 353-355]. Sembrerebbe dunque di esser di fronte a un organismo in grado di segnare una rottura forte con il passato grazie al controllo partigiano. D'altra parte, avvalendoci delle testimonianze degli stessi protagonisti, ci accorgiamo ancora una volta di quello scarto esistente tra le aspirazioni e le difficoltà materiali. Giuseppe Alberganti “Cristallo” dà prova della complessità di questa transizione, ricordando ad esempio come «per diversi ancora il sindaco era visto come una specie di podestà» [2], e mettendo dunque in discussione la consapevolezza dell'importanza delle elezioni di questi nuovi poteri locali da parte della popolazione. Che le nuove forme di governo del territorio rappresentassero una rottura rispetto al fascismo è messo in dubbio anche dallo stesso Gorrieri, il quale ha scritto che «i provvedimenti adottati dalle nuove amministrazioni non rivestirono in genere carattere straordinario. La principale preoccupazione era quella dell'approvvigionamento annonario e del regolare funzionamento della vita civile e amministrativa nonostante la situazione di emergenza e le difficoltà di ogni genere, allo scopo di attenuare i sacrifici e i disagi della popolazione» [E. Gorrieri 1970, 362]. Arbizzani e Casali hanno però sottolineato come questi elementi indicati da Gorrieri fossero da considerarsi «straordinari» se si tiene in considerazione il contesto in cui questo esperimento venne attuato [L. Arbizzani, L. Casali 1970, 43]. Sembra infatti opportuno riconoscere l'importanza e l'elemento di rottura che queste nuove forme di governo rappresentavano, dal momento che anche il ripristino di tradizioni e usi locali precedenti al fascismo appariva appunto straordinario.

In ogni caso l'utilizzo del termine «repubblica» è da considerarsi semplificatorio e uniformante esperienze tra loro diverse. Ad esso sembra dunque preferibile sostituire termini come «zona libera», «territorio partigiano», o ancora «distretto». Quest’ultimo utilizzato da Arbizzani e Casali e dal comandante Mario Ricci “Armando” che, descrivendo come la zona fosse diventata punto di riferimento per le migliaia di giovani che fuggivano i bandi di leva fascisti, ricordava: «Montefiorino era divenuta il distretto di Modena. Non si parlava più del distretto di Modena: si parlava del distretto di Montefiorino» [L. Arbizzani, L. Casali 1970, 38-39]. Arbizzani e Casali mettono in luce inoltre come il termine «zona libera» possa esser fuorviante nella misura in cui, oltre ai territori partigiani generalmente riconosciuti [3], molte furono le zone di fatto libere dalla presenza e dal controllo della Rsi. A questo proposito sarebbe dunque maggiormente corretto parlare di «zona liberata» e tracciare così una differenza tra una zona liberata dalle azioni partigiane e una zona rimasta libera di fatto. I due storici avevano evocato questa differenza in occasione della polemica con Ermanno Gorrieri sopra ricordata. A loro avviso infatti non si può parlare di una seconda Repubblica per quanto riguarda i comuni modenesi in quanto nella fase autunnale la zona si trovò ad essere per lo più libera di fatto e non liberata, come invece era accaduto per l’esperienza estiva, frutto di una precisa scelta d’occupazione presa tra l'aprile e il maggio del 1944 e realizzata grazie ad un serie di azioni di attacco pianificate contro i presidi della Gnr [L. Arbizzani, L. Casali 1970, 15]. Se questa distinzione tra zona libera e zona liberata ci dice molto sulla genesi di un territorio, sarebbe però sbagliato escludere a priori dalla riflessione una zona che, benché si trovi ad esser libera di fatto, può comunque porsi come un terreno fertile per indagare la storia del movimento partigiano. In questo senso appare importante volgere lo sguardo alle vicende dell'autunno, quando non solo nella montagna modenese ma anche in quella reggiana, il movimento partigiano si riorganizzava dotandosi di nuove strutture.

2. Montefiorino dopo i rastrellamenti: continuità e discontinuità rispetto all'estate

La fine della zona libera di Montefiorino viene ufficialmente attestata dal rastrellamento tedesco che ha inizio il 30 luglio 1944. L'attività partigiana dava alle autorità naziste ragione di preoccuparsi, in quanto la zona libera si estendeva in un'area molto delicata dal punto di vista delle comunicazioni con il fronte. Il territorio si trovava nelle immediate retrovie della Linea Gotica, sulla quale si erano attestati i reparti tedeschi in posizione difensiva. All'interno della zona si trovava poi la centrale idroelettrica di Farneta, considerata dai comandi nazisti di fondamentale importanza per rifornire di energia la zona [Silingardi 1998, 257]. I partigiani avevano il controllo completo della strada delle Radici che da Sassuolo portava in Garfagnana, dalla zona inoltre erano possibili puntate offensive verso la Via Giardini (statale 12) e la strada del Cerreto (statale 63). Le imboscate partigiane durante i 45 giorni della Republica di Montefiorino non furono numerose, ma i tedeschi temevano una loro intensificazione. Questo timore li spinse probabilmente a cercare in un primo tempo forme di tregua con la Resistenza. In tal senso può essere contestualizzata la proposta di accordo avanzata al Comando partigiano il 15 luglio: il riconoscimento della zona libera, la sospensione di ogni azione di rastrellamento e il rilascio degli ostaggi, in cambio della passività verso le forze tedesche e la liberazione di tutti i soldati catturati dai partigiani [Silingardi 1998, 287]. La proposta venne respinta, non senza aver suscitato però prima dubbi e posizioni contrastanti. Si discusse «tutto il giorno e tutta la notte successiva», e fu Armando a prendere una posizione netta: «Non me la sento. Innanzitutto non si può firmare, dal momento che siamo in guerra con i tedeschi e con i fascisti» [L. Arbizzani, L. Casali 1970, 22].

La proposta non suscitò invece l’allerta del Comando partigiano, che all'avvio delle operazioni di rastrellamento si rivelò piuttosto impreparato. L'attacco ai territori modenesi e reggiani costituiva il terzo ciclo della più vasta operazione Wallenstein e aveva l’esplicito obiettivo di spazzare via la Resistenza dalle due province. I tedeschi impiegarono un'ingente quantità di forze e fecero confluire truppe tutt'intorno alla zona liberata. Gorrieri parla di circa cinquemila uomini, ma soprattutto riferisce in merito alla quantità di cannoni, mortai, mitragliere [E. Gorrieri 1970, 408-428]: i tedeschi, di fatto, si posero tutt'intorno alla zona libera utilizzando, non una strategia di accerchiamento che avrebbe mirato a stringere la zona fino all'eliminazione dei partigiani, quanto invece posti di blocco fissi lungo la Via Giardini e la Via del Cerreto. A questo si aggiunse l'occupazione di aree della pedemontana e dei passi sul crinale appenninico. Verso l'interno partivano dunque gli attacchi tedeschi da Castelnuovo Monti, Pievepelago, Sassuolo, e qualche giorno più tardi da Serramazzoni verso Gombola. Da Castelnuovo Monti mossero verso Ligonchio, Villa Minozzo e Carpineti. Proprio a Ligonchio la mattina del 30 luglio era in programma un comizio pubblico e l'insediamento del Comitato comunale provvisorio: ci si stava avviando a una mattinata di intensa attività organizzativa quando l'attacco ebbe inizio [G. Franzini 1966, 344]. Armando e Mario Nardi si recarono di persona nel reggiano per verificare quale fosse la situazione e inviarono reparti di riserva: il Battaglione russo e il Battaglione Anderlini [Silingardi 1998, 287-288]. Questi sforzi risultarono però inutili e i paesi vennero occupati in giornata. Da Sassuolo altre colonne tedesche cercarono di salire la Valle del Secchia puntando su Cerredolo e Prignano, dove la Divisione Barbolini riuscì a contenere l'aggressione. Da Pievepelago veniva condotto l'attacco dal primo pomeriggio verso Cadagnolo e Sant'Anna Pelago. Il giorno successivo nonostante la maggiore resistenza e la difficoltà nell'avanzare causata dall'efficace risposta partigiana a nord, l'intensa azione tedesca portò all'occupazione di Cerredolo. Di fronte al rischio di un accerchiamento il Comando partigiano diede l'ordine di sganciamento, ma i combattimenti proseguirono anche nella giornata del primo agosto. In seguito alla decisione di non rispettare l’ordine ricevuto, alcuni reparti continuarono infatti a resistere: tra questi il Battaglione Monchio, che difese per tutta la giornata il Ponte sul Secchia a Saltino e il Battaglione di Narciso Rioli [L. Arbizzani, L. Casali 1970, 55-56].

Le rovine di Montefiorino dopo il rastrellamento, 6/08/1944 (Archivio Corti)
Le rovine di Montefiorino dopo il rastrellamento, 6/08/1944 (Archivio Corti)

Un ulteriore attacco veniva poi condotto il 3 agosto nella zona di Gombola contro la divisione di Marcello Catellani, fino a quel momento non impegnata nei combattimenti. Nonostante le gravi perdite, l'intento tedesco di scompaginare la Resistenza nel modenese e nel reggiano non si realizzò completamente [4]: molti partigiani si dispersero, ma altrettanti sarebbero in seguito stati rinquadrati in pianura nei Gap e nelle Sap. I fenomeni di sbandamento interessarono soprattutto i reparti di recente formazione, mentre quelli maggiormente consolidati dimostrarono per lo più coesione e determinazione [Silingardi 1998, 289]. Ad essere investita dall'attacco tedesco in modo radicale fu invece la popolazione civile: dopo lo sganciamento partigiano infatti i tedeschi iniziarono l'opera di razzia e distruzione dei paesi. Molti civili rastrellati furono rinchiusi nel campo di Fossoli di Carpi ed in seguito inviati al lavoro coatto in Germania. Molteplici risultarono i danni  materiali provocati dal rastrellamento: paesi dati alle fiamme (tra cui Montefiorino, Villa Minozzo, Toano), case distrutte – che, solo a Villa Minozzo, furono 882 [P. Parisi 1975, 21] – razzie di bestiame e distruzione dei raccolti. Un quadro drammatico, nel quale la popolazione fu il soggetto costretto a pagare il prezzo più alto; e una condizione di terrore, da cui prese avvio quella diffidenza che in seguito ostacolò la collaborazione fra montanari e partigiani [G. Franzini 1966, 252-53].

La riuscita dell'attacco si dovette soprattutto alla quantità di armi e rifornimenti tedeschi, laddove invece i partigiani ne scontavano una forte carenza. L'arrivo della missione inglese comandata da Vivian R. Johnston aveva permesso di intensificare in luglio i lanci alleati, ma era aumentata soprattutto la dotazione di armi leggere [M. Legnani 1968, 124]. A pesare furono anche i problemi di collegamento: le formazioni non disponevano infatti di telefoni da campo, né di radio; la comunicazione, e cioè la ricezione di notizie e di ordini, era totalmente compromessa, al punto tale che all'arrivo delle staffette le informazioni erano già superate dai fatti. I Comandi si trovavano di conseguenza spesso ad agire autonomamente, senza conoscere la situazione globale e questo ebbe un notevole peso anche al livello psicologico sui combattenti [G. Franzini 1966, 248-49]. Un altro elemento che giocò in sfavore del movimento partigiano fu la sua composizione. In estate infatti si era avuto un considerevole ingrossamento dei reparti: molti giovani erano saliti in montagna certi di una prossima liberazione e, in particolare a Montefiorino, si era verificato un generale rilassamento da parte partigiana che Gorrieri ha descritto come «sagra della libertà». Quando iniziò l'offensiva tedesca in montagna si trovavano molti giovani impreparati, che certo non si aspettavano di dover affrontare un attacco di così vasta portata. Sarà soprattutto Gorrieri ad attribuire le responsabilità della sconfitta all'illusione dei 45 giorni di Montefiorino che, a suo avviso, impedì la predisposizione di un piano vero e proprio da attuarsi nel caso di aggressione nemica. Egli stesso riconosce però che sarebbe stato in ogni caso impossibile difendere la zona libera e respingere gli attacchi tedeschi, e che in ultima istanza l'unico esito possibile sarebbe stato quello dell'abbandono della zona. Nonostante le numerose difficoltà incontrate dai partigiani durante il rastrellamento, in seguito alla sconfitta al Comando furono rivolte numerose critiche e accuse. Il malcontento appariva spontaneo e diffuso e si rivolgeva contro il Comando di Osvaldo Poppi “Davide” e Armando [E. Gorrieri 1970, 447]. Già intorno al 15 agosto queste posizioni andavano delineandosi e – mentre Davide e Armando si trovavano con alcune formazioni nella Valle del Panaro – altre si concentrarono nel territorio compreso fra il Secchia e il Rossena, dove si svolsero alcune riunioni di comandanti che, apertamente critici verso il Comando, cominciavano ad ipotizzare una nuova soluzione organizzativa.

Il principale elemento di discontinuità rispetto all' estate fu la scissione tra le forze modenesi e quelle reggiane. Tra il 20 e il 25 giugno le unità partigiane modenesi e reggiane si erano infatti congiunte – costituendo un'unica zona libera – sotto il Comando del Corpo d'Armata Centro-Emilia, con a capo Armando (rappresentante del Pci di Modena) e come Commissario generale Didimo Ferrari “Eros” (rappresentante del Pci di Reggio Emilia). Si trattava di un Comando che sanciva di fatto un'unione più formale che sostanziale, essendosi formati parallelamente due comandi, uno a Montefiorino con Armando e Davide, l'altro a Villa Minozzo con Eros e Riccardo Cocconi “Miro”. Per quanto formale, dall'estate in poi quest’unione non si diede più. Un ulteriore elemento di discontinuità venne dato dalla composizione del Comando. Se durante la fase estiva esso era infatti stato dominato per lo più da comunisti e azionisti, nell'autunno emerse una più forte presenza democristiana accanto a figure comuniste, azioniste e socialiste ancora presenti nella zona [Silingardi 1998, 507-508]. Infine la comparsa di un Cln della montagna (Clnm), prima nel reggiano e in un secondo momento nel modenese, costituì un importante elemento di novità. Nel reggiano il Clnm venne formato già in agosto e, seppur non accettato inizialmente dalla Dc, ricevette subito il riconoscimento dal Cln provinciale. Nel modenese si scontava una più problematica riorganizzazione, ma soprattutto pesava lo scontro politico tra componenti democristiane e comuniste, per questo il Clnm si costituì solo alla fine di novembre ed ebbe vita più difficile rispetto a quello reggiano.

La zona libera che si costituì nell'autunno del 1944 non fu il prodotto di operazioni militari o azioni di disturbo, ma si concretizzò in conseguenza del ritiro delle forze di occupazione dopo l'attacco di luglio-agosto. Infatti con la sospensione dell'avanzata alleata e con il fronte della Gotica ormai stabilizzato, la zona di Montefiorino aveva perso l'importanza strategica ricoperta nel corso dell’estate  [Silingardi 1998, 506]. Anche le forze fasciste non si dovevano sentire sicure nella zona, tanto che scelsero di non ricostruire i presidi nei paesi dai quali erano stati cacciati nel giugno precedente, al più condussero rastrellamenti nella zona pedemontana per catturare partigiani sbandati che si muovevano verso la pianura [G. Franzini 1966, 254]. In novembre sono le stesse fonti della Rsi a riferire che

da parecchi mesi la zona montagnosa non è più controllata dalla Gnr che, per ordine del comando germanico di piazza, ha ritirato tutti i distaccamenti a sud della Via Emilia. Su detto territorio permane solo il controllo delle truppe germaniche di sicurezza del retrofronte. Tale controllo però si limita a impedire le azioni di disturbo lungo le vie di comunicazione col fronte, ma lascia ai banditi ogni possibilità di azione e di movimento nelle zone distanti dalle strade principali [5].

Dal punto di vista militare nel corso dell’autunno la situazione sembrava dunque essere mutata e la zona di Montefiorino – così come rilevato da Arbizzani e Casali – di conseguenza era stata abbandonata, più che esser stata nuovamente liberata. Una zona libera di fatto quindi, in cui si realizzarono però importanti esperienze di autogoverno, il che ci consente di guardarla come un'eredità della prima fase. Le vicende dell'autunno mantengono infatti una continuità con quelle dell'estate, e per questo non sembra azzardato affermare che l'organizzazione che si diede nella montagna modenese e in quella reggiana fu il prodotto degli insegnamenti e delle vicende dell’esperienza precedente. Per quanto riguarda il modenese, ad esempio, il Clnm veniva a porsi come organo di coordinamento tra quelle amministrazioni comunali che – elette nell’estate – avevano continuato a operare sul territorio anche dopo il rastrellamento. Gli elementi di continuità non emergono però solo dal basso, e dunque dalle amministrazioni sul territorio, ma anche dall'alto e in particolare dal Clnai. Questo inviava infatti il 30 agosto nuove direttive [6], che si richiamavano a quelle già emesse il 2 giugno sulla preparazione dell’insurrezione [7], per invitare a procedere a livello locale alla nomina delle cariche che «all'atto della Liberazione, dovranno assumere funzioni di potere e amministrative». Si sarebbe dovuto seguire «solo per il momento attuale» un criterio solo parzialmente democratico, così da garantire la rappresentanza ai vari partiti aderenti al Cln e ottenere una situazione di equilibrio tra le diverse forze antifasciste.

3. La riorganizzazione partigiana nei comuni modenesi e reggiani

In seguito al rastrellamento si apriva dunque una nuova fase caratterizzata dalla fine della gestione comune delle due province. La riorganizzazione delle forze partigiane procedette in forma autonoma e separata nella montagna modenese e in quella reggiana e soprattutto in tempi diversi. Sebbene dovunque si svolse in uno stato di continuo allarme e frequenti puntate tedesche [G. Gorrieri 1970, 443-445], nei comuni reggiani l'attività nella zona libera riprese in tempi più veloci rispetto al modenese. Il rastrellamento infatti, pur nella sua durezza, non aveva determinato la distruzione delle formazioni partigiane, né la fine della guerriglia: questa continuava soprattutto grazie ai distaccamenti della Val d’Enza, che non erano stati colpiti dai rastrellamenti [P. Parisi 1975, 22]; mentre nella zona a sud-est del Secchia procedeva la riorganizzazione delle formazioni per opera di Eros e Miro.

A pesare in modo determinante sulla riorganizzazione furono, in entrambe le province, le tensioni tra le forze politiche, così come tra i comandanti delle formazioni e il Comando generale. Come era naturale, dopo la sconfitta si cercò qualcuno a cui attribuire le responsabilità e vennero rivolte aspre critiche al Comando di Montefiorino. Nel reggiano i democristiani manifestavano apertamente il loro dissenso verso l'operato del Comando garibaldino: Domenico Orlandini “Carlo” invitava a non riprender la lotta fino a quando la questione del comando non fosse risolta in senso accettabile per i non comunisti [G. Franzini 1966, 262-63]. Secondo Miro le accuse democristiane dipendevano anzitutto dalla volontà di impadronirsi del comando e di premunirsi dal pericolo che i comunisti, in possesso delle armi, preparassero la rivoluzione. Nonostante i contrasti, le forze partigiane andavano però rinsaldandosi grazie alla definizione di un nuovo regolamento disciplinare che, dopo le operazioni e gli sbandamenti estivi, apparve di primaria necessità. Questo – datato 26 agosto 1944 – altro non era che la riformulazione di un ordinamento del 14 agosto firmato da Eros e Miro [G. Franzini 1966, 269], ma in esso si esigeva per la prima volta un impegno all'atto dell'arruolamento: precedentemente infatti non veniva richiesta alcuna garanzia e l'unico criterio per l'arruolamento era stato quello della generica professione di antifascismo. Inoltre, all' organizzazione interna diede un impulso il maggiore Johnston che, proveniente dalla Toscana, si era messo a disposizione del Comando garibaldino per favorire le formazioni reggiane. Alla fine di agosto la riorganizzazione sembrava compiuta: pochi erano stati gli abbandoni e tra questi molti erano stati riassorbiti dai reparti sappisti della pianura [G. Franzini 1966, 273].

Nel modenese invece i contrasti politici sfociarono in una serie di incontri che si svolsero intorno alla metà di agosto presso il Comando di Giuseppe Barbolini. Emergeva da parte dei democristiani e degli azionisti la volontà di modificare gli equilibri del Comando in loro favore; ai contrasti politici si aggiungevano dissapori personali, come nel caso dell'antica incompatibilità tra Armando e Barbolini. Furono determinanti in ogni caso le direttive inoltrate dal Comando unico militare Emilia Romagna (Cumer) il 21 agosto, in cui si affermava la necessità di assumere una «denominazione corrispondente alla realtà delle cose», abolendo il pomposo appellativo di Corpo d'Armata e assumendo quello più consono di Divisione. Si invitava il Comando a non essere «settario ed esclusivista» e, dunque, permettere che gruppi o reparti che volessero assumere una propria fisionomia fossero lasciati liberi di operare in tal senso, «l'essenziale è che essi combattano». Nel modenese la riorganizzazione si sarebbe conclusa nei primi giorni di settembre con la decisione di assorbire l'opposizione di Barbolini attraverso la sua nomina a vice-comandante generale. Le forze dell’ex Divisione Barbolini furono divise in due brigate, la Bigi e la Costrignano. La Divisione comandata da Renato Giorgi “Angelo” venne ridotta a Brigata e affidata al comando di Domenico Telleri “Minghin”. La Divisione comandata da Iris Malagoli “Mario il modenese” si trasformò nella Brigata Roveda. Infine venne costituita la Brigata Antonio Ferrari, sotto il comando di Ermanno Gorrieri “Claudio”. A queste brigate si aggiungeva infine il Battaglione d’Assalto Fulmine. Le cinque brigate – che contavano circa 2000 uomini – furono dislocate ad ovest della Via Giardini, mentre le forze rimaste nella Valle del Panaro furono raggruppate nella Brigata Gramsci, sotto il Comando di Fernando Camellini “Andrea” [E. Gorrieri 1970, 450-452]. Il Comando della Divisione veniva confermato nelle persone di Armando (comandante generale), Davide (commissario politico), Mario Nardi (capo di Stato Maggiore) e Giovanni Vandelli “Libero Villa” (intendente). Barbolini era nominato vice-comandante, mentre il democristiano Luigi Paganelli “Lino” era chiamato a ricoprire la carica di vice-commissario a fianco del comunista Adelmo Bellelli “Ercole”. Superato il Corpo d'Armata Centro-Emilia e stabilita una misura di compromesso con i democristiani anche nel reggiano si procedeva alla riorganizzazione. Veniva istituito il Comando unico di zona, il quale avrebbe avuto la seguente composizione: Miro (comandante), Eros (commissario), Carlo (vice-comandante), Pasquale Marconi “Franceschini” (vice-commissario). A dare un contributo fondamentale alla riorganizzazione fu il Cln provinciale che operò per favorire il superamento delle tensioni, inviando in montagna due delegati al fine di evitare ogni tentativo frazionistico in seno al Comando.

L'offensiva alleata era intanto continuata: dopo una breve battuta d'arresto in seguito alla presa di Firenze, il 25 agosto gli Alleati sondavano la Linea Gotica nei pressi di Pesaro e il 7 settembre l'VIII Armata britannica raggiunse Riccione. Se in questa fase l'obiettivo tedesco era di ritardare l'avanzata del fronte per poter ultimare le fortificazioni della nuova linea di difesa, l'attività dei partigiani nelle retrovie divenne sempre più parte integrante della strategia militare degli Alleati, che ne sollecitavano le azioni di guerriglia. La sensazione generale era che ci si trovasse in procinto della liberazione della regione: un pronostico di eccessivo ottimismo, in ragione del quale il Cumer fu indotto a commettere un grave errore di valutazione ordinando il 7 settembre alla Divisione Modena di prepararsi per la discesa verso Modena e Bologna. Si apriva così un’accesa polemica epistolare tra il Cumer e il Comando di Divisione: quest’ultimo faceva notare la debolezza delle formazioni modenesi, le quali non potevano essere impiegate su due obiettivi; e riteneva inaccettabile che i partigiani della montagna fossero messi alle dipendenze del Comando Piazza cittadino. Inoltre il Comando di Divisione sottolineava come le direttive del Cumer confliggessero con quelle degli Alleati, i quali sostenevano l'attività partigiana in montagna attraverso l'invio di rifornimenti e munizioni. La disputa tra il Comando di Divisione e il Cumer  risultava ancora in corso quando la zona fu investita da un nuovo rastrellamento tedesco, che dal 12 al 14 settembre interessò le forze ad ovest della Via Giardini [E.Gorrieri 1970, 461]. Le perdite da parte partigiana furono di poche unità e anche le rappresaglie non furono paragonabili a quelle dell'estate, nessun paese venne bruciato e non ci fu sbandamento da parte delle formazioni. L'attacco ebbe invece precise conseguenze sul piano dell’organizzazione interna partigiana determinando la definitiva scissione in due tronconi della Divisione: da una parte le formazioni stanziate a ovest della Via Giardini, facenti capo a Davide, Barbolini e Nardi; dall’altra quelle acquartierate nella Valle del Panaro, dove assieme alla Brigata Gramsci si stabilirono anche Armando e Ercole.

Il Cumer intanto il 14 settembre mise fine alla polemica con il Comando di Divisione, invitandolo ad eseguire gli ordini senza discuterli, mentre veniva indirizzato a Davide e Armando un richiamo personale da parte del Comandante regionale Dario Barontini [E. Gorrieri 1970, 461]. Armando si trovava ancora nella Valle del Panaro quando giunse dal Cumer l’ordine di prepararsi a marciare verso la pianura. Le sue forze furono però attaccate il 21 settembre nella zona di Sassoguidano e lo scontro lo costrinse ad attraversare il fiume Panaro per risalire verso Fanano e dislocarsi nella zona del lago Patrignano, a 1300 metri di altezza [C. Silingardi 1998, 360]. Lui stesso racconta di aver resistito in quella situazione critica per circa una settimana [E. Gorrieri 1970, 470], e di essersi trovato poi di fronte a una scelta: rientrare nella zona partigiana, con il rischio di incontrare nuovamente le truppe tedesche; oppure muovere verso le linee alleate. Armando passerà il fronte alla fine di settembre con circa 1500 uomini, scomparendo così dalla scena partigiana modenese. La sua decisione susciterà numerose critiche e perplessità: presso il Comando dell’intera Divisione e non della sola Brigata Gramsci la sua scelta venne infatti vissuta da molti come un abbandono [8]. Dopo il passaggio oltre il fronte di Armando, il Cumer e il Comando di Divisione diedero disposizione ai numerosi gruppi sbandati e partigiani rimasti isolati nella Valle del Panaro di proseguire la discesa verso Bologna, nell’intento di evitare che anch'essi passassero le linee: venne così creato il Gruppo Brigate Est, che avrebbe costituito il Corpo di spedizione per Bologna. A seguito del rastrellamento la maggior parte delle brigate tornarono nelle posizioni precedenti, mentre l’offensiva alleata sugli Appennini conseguiva importanti successi, diffondendo l'impressione che la discesa nella Valle Padana fosse imminente. Nonostante la scarsità delle munizioni a disposizione, in questa fase le azioni partigiane furono intense, soprattutto sulla statale 12. Durante il mese di ottobre l'avanzata americana proseguì, seppur con minore slancio: il 14 venne conquistato Livergnano e il 24 il Monte Belmonte, a soli 13 chilometri da Bologna. Notevoli progressi conseguì anche l'VIII Armata, che il 19 liberò Cesena, il 21 Cesenatico, il 22 Cervia e il 26 Forlimpopoli. Verso la fine del mese però l'iniziativa poteva considerarsi conclusa, allontanando definitivamente la prospettiva della liberazione prima dell'inverno.

Per il movimento partigiano si apriva dunque una dura crisi, dovuta a molteplici fattori: la presenza di consistenti reparti germanici, gli attacchi frequenti sull'Appennino, il clima tornato ad essere inclemente, ma soprattutto la crescente ostilità espressa dalla popolazione montana [E. Gorrieri 1970, 501]. La situazione d’indigenza si presentava infatti particolarmente grave e – per quanto venissero richiesti ai Comandi di pianura vestiti, indumenti, coperte e scarpe – appariva impossibile riuscire soddisfare le esigenze della montagna. Anche gli Alleati in questo periodo non furono di ausilio, basti pensare che nei mesi di settembre e ottobre venne organizzato un solo aviolancio. Fu in ragione di questa profonda crisi che Davide il 9 novembre maturò la decisione di far passare il fronte al grosso delle forze partigiane, trattenendo con sé solo 300-400 uomini. Negli stessi giorni gli Alleati ripresero gli aviolanci vanificando la ragione principale che aveva suggerito tale scelta, ma la decisione era però ormai presa e il 13 novembre venne diramato l'ordine di sconfinamento: alla fine di novembre sull'Appennino rimanevano circa 500 partigiani, inquadrati principalmente in quattro gruppi – quello di Balin, Minghin, Claudio e Marcello – e in buona parte appartenenti a forze democristiane, le quali avevano visto solo una trentina di uomini abbandonare la lotta durante la crisi autunnale. Un tale successo era riconducibile a una molteplicità di elementi: anzitutto i comandi democristiani non avevano mai puntato sul numero, operando una maggiore selezione dei propri uomini; inoltre, non avendo insistito quanto i comunisti sulla prospettiva della liberazione entro l'autunno, cercando di pianificare il superamento dell'inverno in montagna. Altro aspetto fondamentale era l'appoggio che ricevevano dalle proprie organizzazioni di pianura, le quali avevano condotto un'importante attività di approvvigionamento permettendo al Battaglione democristiano di pesare il meno possibile sulla fragile economia della popolazione locale [E. Gorreri 1970, 518-519].

In seguito al passaggio del fronte, si pose con urgenza la questione del vuoto creatosi nel Comando di Divisione: avevano infatti abbandonato la montagna il Comandante Armando, il vice-comandante Barbolini, il vice-commissario Ercole, il capo di Stato Maggiore Nardi, gli ufficiali di Stato Maggiore Angelo e Anceschi. Gli unici superstiti del vecchio Comando erano il commissario Davide e il vice-commissario Lino. Già prima degli sconfinamenti, il 31 ottobre Davide si era reso conto della necessità di apportare modifiche e aveva proposto un parziale «rimpasto» nella composizione del Comando, il quale però non era stato accettato dalla componente democristiana, ormai convinta della necessità di una discussione più ampia in proposito. Lo stesso Davide il 17 novembre, riconosciuta superata tale possibilità, decise di affrontare i problemi della Divisione Modena in un convegno dei rappresentanti dei tre partiti – Pci, Dc, PdA – che si sarebbe tenuto  il 27 novembre presso Civago.

Il convegno di Civago

A Civago emerse il lavoro svolto dai democristiani nel periodo precedente e il cambiamento degli equilibri tra le forze politiche nel modenese. Questi si presentarono all’incontro con un programma per la montagna illustrato da un documento in 15 punti, che prevedeva novità fondamentali: la separazione netta tra l'organizzazione militare e l'amministrazione della vita civile; la costituzione di un Comitato di liberazione della montagna, di un corpo di polizia e di un tribunale alle sue dipendenze; la costituzione di un Comando militare, di un'Intendenza e di un Commissariato politico con competenze limitate ai partigiani; la nomina di un ufficiale democristiano per i collegamenti con il Cumer; inoltre veniva richiesto l'impegno a non aumentare il numero dei partigiani e l'abbandono del criterio di massa per l'arruolamento. Su questa ultima questione la discussione fu particolarmente accesa: per i comunisti questa clausola era infatti apertamente contraria allo spirito della lotta, andava dunque considerata «antipatriottica e, per l'esclusione della massa, antidemocratica» [C. Silingardi 1998, 480]. Da parte democristiana veniva inoltre avanzata un'ulteriore pretesa, ossia l'esclusione della figura di Davide dal nuovo Comando. Tale richiesta era chiara espressione della condanna democristiana agli indirizzi del passato e della volontà di rompere definitivamente con la gestione della prima fase. Gli azionisti giocarono un ruolo di secondo piano, dando in linea di massima sostegno al programma democristiano. Dopo due giorni di confronto fu deciso dai rappresentanti dei tre partiti di interpellare il Cumer e il Cln provinciale, ai quali venne inviata un'ampia relazione sul dibattito. Nessuno di questi due organi ebbe però il tempo di esprimersi in quanto la situazione ebbe una decisa accelerazione per impulso dei maggiori inglesi Johnston e Wilcockson. Questi convocarono il 4 dicembre una riunione presso la loro sede a Gova, nella quale annunciarono che non avrebbero atteso il formarsi di un Comando di Divisione unico se lo stato d’incertezza si fosse prolungato; e avrebbero invece sostenuto con aviolanci la formazione che avesse dato maggiori garanzie di idoneità per la conduzione della campagna invernale. Secondo Gorrieri l'incontro si concluse con il rifiuto da parte democristiana della proposta inglese, mentre Silingardi riporta una relazione comunista secondo la quale furono i rappresentanti del Pci a respingere la pretesa inglese di dar ordini circa la composizione del Comando [C. Silingardi 1998, 483]. La sera del 4 dicembre si tenne nella canonica di Gova un incontro tra democristiani e comunisti nel quale fu raggiunto l'accordo: i comunisti accettavano il programma della Dc, le dimissioni di Davide e la nomina del nuovo Comando della Divisione, ottenendo in cambio l'esclusione di Claudio da ogni incarico. Il 12 dicembre veniva costituito formalmente il nuovo Comando così composto: Lino (comandante), Luigi Benedetti “Secondo” (commissario), Severino Sabbatini “Wainer" (vice-comandante), Gianfranco Ferrari (vice-commissario), Aurelio Righi Riva “Barba Elettrica” (capo di Stato Maggiore), Nino Giovanardi “Giusto” (intendente), Millo Olivieri (capo del servizio informazioni). I membri del nuovo Comando erano tutti democristiani, ad eccezione di Secondo e Wainer [E. Gorrieri 1970, 527]. Il Comando venne trasferito a Farneta, frazione di Montefiorino, dove rimase fino alla liberazione. Tra gli obiettivi da perseguire vi erano la collaborazione delle forze politiche, la diminuzione degli effettivi e l'imposizione di una nuova disciplina. Il Comando si suddivise poi in tre organi affinché fossero decentrate le responsabilità: il Comando militare, l'Intendenza e il Commissariato politico. Dal punto di vista militare non si poteva parlare di occupazione stabile del territorio, per quanto venisse adottato un sistema di difesa della zona da parte partigiana [C. Silingardi 1998, 485]. La riorganizzazione determinò la costituzione di 3 brigate: la Dolo, la Dragone e la Santa Giulia. La Brigata Dolo era strutturata su 4 battaglioni ed aveva una forza di circa 240 partigiani, anche la Brigata Santa Giulia comprendeva 4 battaglioni e circa 285 uomini; mentre la Brigata Dragone era invece suddivisa in 2 battaglioni per un totale di 135 uomini. La Divisione, comprendente altri distaccamenti e reparti minori, contava complessivamente circa 800 uomini.

4. L’organizzazione della vita civile

La fase autunnale fu caratterizzata oltre che dalla gestione autonoma e separata delle due province, da un'altra importante novità: la creazione di organi di governo della vita civile, i Cln della montagna. Questi sorsero in tempi diversi nelle due province ma in entrambe ebbero un ruolo centrale grazie al loro lavoro di supervisione e mediazione tra i Comuni della zona libera. Nel reggiano il Clnm venne istituito nella canonica di Poiano di Villa Minozzo il 23 agosto e si occupò immediatamente di riprender le fila del lavoro iniziato dalle giunte comunali nel mese di giugno. Ad impegnarsi nella promozione del Cln della montagna e nella gestione della vita civile furono in un primo momento i comunisti, mentre gli esponenti democristiani scoraggiavano tali iniziative astenendosi dalla partecipazione. Durante la prima seduta del Clnm venne però avanzata la richiesta al Clnp di inviare un membro democristiano e la questione venne risolta in breve tempo. Il Clnm ebbe infine la seguente composizione: Luigi Galli “Barbieri” (presidente - Dc), Aristide Papazzi “Prato” (segretario - Pci), Canovi (Psi); Renzo Ferrarini (antifascista senza appartenenze di partito); “Cesare” (antifascista senza appartenenze di partito). L’obiettivo dichiarato dal nuovo organismo politico era che «la popolazione si amministri, si alimenti e si organizzi da sola, comune per comune, frazione per frazione» [9]. Già nella prima decade di settembre i Comuni di Ligonchio e Villa Minozzo, assieme ad altri della montagna, procedevano alle elezioni delle rispettive giunte comunali; mentre nel Comune di Toano l'organismo aveva ripreso a funzionare già da metà agosto e dunque non fu necessario procedere a nuove elezioni. A Villa Minozzo e nelle sue singole frazioni la maggioranza si espresse in favore dei democratici cristiani, mentre a Ligonchio si ebbe una schiacciante maggioranza socialista [P. Parisi 1975, 25-26]. Attraverso la diramazione della circolare Direttive per l'organizzazione della vita civile nelle zone liberate totalmente o parzialmente di garibaldi [sic] [10] il Clnm aveva nominato una commissione provvisoria la quale doveva selezionare i candidati tra i quali il «popolo unito in assemblea» avrebbe dovuto scegliere. Nel documento erano quindi delineati i compiti spettanti ai Consigli comunali, i quali dovevano studiare piani per l'amministrazione del territorio. Per quanto riguardava le tasse e le imposte di consumo, occorreva definire «a chi e come aumentarle, a chi e come diminuirle». Con questa circolare il Clnm si rivolgeva oltre che ai tre comuni della zona libera, anche ad altri, i quali  stavano procedendo anch'essi all'organizzazione della vita civile, ma subivano attacchi o erano parzialmente presidiati dalle forze tedesche. Da tali direttive si comprende quale dovesse essere – almeno nelle intenzioni – il ruolo del Clnm, che si presentava come organo di collegamento e controllo sui singoli Comuni. Un'aspirazione di base che dal raffronto con i verbali delle sedute del Clnm dei mesi successivi si rivela in buona parte illusoria: l'agire dei Comuni si dimostra infatti per lo più autonomo, nonostante l'impegno nella diramazione di direttive unitarie da parte del Clnm prosegua per tutto l'autunno [11]. La copiosa corrispondenza intercorsa tra il Cln della montagna reggiana e il suo corrispettivo provinciale testimonia invece un riconoscimento reciproco e una collaborazione proficua. Un confronto virtuoso che sembra costruirsi fin dalla prima seduta del Clnm: «desideriamo che voi mandate [sic] a una nostra riunione un vostro delegato, per informarci di ogni aspetto del vostro funzionamento e dei limiti della vostra e nostra attività»; e ancora «noi ci riteniamo un comitato sottostante a Voi diretto» [12]. Era soprattutto dalla montagna che arrivavano richieste di sostegno all’organizzazione di pianura, eppure in alcune circostanze era accaduto anche il contrario. Ad esempio, in data 1 ottobre 1944 è il Clnp a domandare alla montagna di «provvedere alla preparazione di  400.000  quintali  di  legna  e carbone per rifornire Reggio e pianura appena sarà liberata» [13]. Il Clnm si sarebbe impegnato a soddisfare tale richiesta, scrivendo di aver «incaricato i consigli comunali, e per mezzo di questi le commissioni agricole delle frazioni» [14]. Le comunicazioni tra i due organismi politici riguardavano però per lo più richieste di aiuto rivolte al Clnp: a seguito dei ripetuti appelli inoltrati, la provincia rispose, lanciando dal 11 al 18 ottobre la cosiddetta «settimana del partigiano». Si trattava di un'iniziativa che doveva coinvolgere la popolazione in modo capillare: il Clnp, pur consapevole delle condizioni di precarietà economica e materiale in cui versava la popolazione cittadina, faceva appello alla solidarietà e alla simpatia dei reggiani per il movimento di liberazione. Un'impresa difficile che per la sua riuscita necessitava di una considerevole opera propagandistica. Nonostante la povertà, la «settimana del partigiano» ebbe infine esiti positivi e i partigiani della montagna reggiana iniziarono a coglierne i benefici a partire da novembre. L'aiuto fu anche morale: i partigiani si sentirono circondati dalla solidarietà popolare e il Comando unico ringraziò la popolazione reggiana con una lettera del 16 novembre, che inviata al Cln provinciale venne stampata e diffusa [G. Franzini 1966, 335-336]. Le richieste di sostegno dirette alla popolazione non furono una specificità della provincia, sembra tuttavia – in base a ciò che lo stesso Clnp riferisce – che i reggiani fossero fra coloro che più calorosamente risposero a questo appello, mobilitandosi in circa 45.000.

La questione della creazione di un Cln della montagna finalizzato a gestire la vita civile nella zona modenese si pose invece solo alla fine di novembre, durante il Convegno di Civago. La proposta, avanzata dalla componente democristiana, venne discussa durante i tre giorni d’incontro e il Cln della montagna fu istituito tra il 29 e il 30 novembre. Il nuovo organismo, che assunse su di sé i compiti che fino a quel momento aveva rivestito il Commissariato della Divisione, venne formato dal democristiano Giovanni Manfredi (presidente), dal comunista Tandino Sbrillanci “Tom” (segretario), e dall'azionista “Sandoz".

Ermanno Gorreri, Luigi Paganelli, Giovanni Manfredi, inverno 1944-1945 (Archivio privato Luigi) Paganelli
Ermanno Gorreri, Luigi Paganelli, Giovanni Manfredi, inverno 1944-1945 (Archivio privato Luigi) Paganelli

Nelle intenzioni il Clnm sarebbe dovuto diventare un importante punto di riferimento per la popolazione civile, la quale vi si sarebbe potuta rivolgere per contenziosi giudiziari di carattere civile, arbitrati in materia economica, questioni attinenti al diritto di famiglia e, più in generale, per richieste di aiuto. La prima seduta si tenne il 4 dicembre: come primi atti il Comitato incoraggiò e promosse la formazione di Cln comunali nella zona montana, e chiese il riconoscimento della giurisdizione sulla zona al Cln di Modena [C. Silingardi 1998, 510]. I rapporti con il Clnp risultarono però fin dall’inizio difficoltosi, nonostante il Comitato della montagna si fosse preoccupato fin dalla prima seduta di stabilire canali di comunicazione tra i due organismi. In data 7 dicembre il il Clnm invitò il Clnp a presenziare ad una riunione in montagna [15], e inviò una relazione circa il suo operato e la situazione sull’Appennino. La montagna viveva una situazione di miseria e, in particolare a Montefiorino, si riscontrava una situazione complicata a causa «della totale distruzione del Capoluogo, e quindi degli uffici ed esattoria comunale»; a Frassinoro si rilevava una notevole povertà economica, mentre Prignano sembrava versare nelle condizioni migliori tra i Comuni della zona [16]. Il 16 dicembre venne indirizzata al Clnp una nuova relazione, nella quale il Clnm comunicava di aver preso contatto con i Comuni di Montefiorino, Frassinoro e Prignano [17]. Pochi esempi, che però rendono chiara l'intenzione del Clnm di stabilire un contatto diretto con il Clnp, al quale venivano richiesti «consigli e direttive». Dal Comitato della provincia non pervenne però in questa fase alcun tipo di riconoscimento e anche in seguito le richieste della montagna resteranno inascoltate.

Come lo stesso Clnm fa sapere, tra le sue prime iniziative vi era inoltre quella di prender contatto con le amministrazioni comunali della montagna. Nel modenese infatti, al contrario di quanto avvenne nella montagna reggiana, le amministrazioni comunali avevano proseguito il proprio lavoro in forma continuativa, essendo riuscite a superare indenni il rastrellamento dell'estate. Se possiamo esser certi della loro sopravvivenza, meno certo è invece l'effettivo controllo che il movimento partigiano aveva mantenuto su di esse. Secondo Gorrieri infatti «è fuori dubbio che nei mesi da agosto a novembre le amministrazioni comunali democratiche erano state praticamente abbandonate a se stesse dal Comando di Divisione» [E. Gorrieri 1970, 549]. Elemento facilmente comprensibile, se si considera l'urgenza e le problematiche per la riorganizzazione delle formazioni. É in questo quadro, e in tale situazione di transizione, che assistiamo a un fenomeno particolare, ossia la strutturazione di contatti tra fascisti e amministrazioni comunali. Sin dall'estate, l'esistenza all'interno del territorio della Rsi di un gruppo di Comuni amministrati dalle forze antifasciste aveva posto il problema dei rapporti reciproci in relazione alle necessità d'approvvigionamento della popolazione. Quasi subito era prevalso il senso di responsabilità, come conferma la notizia – presente in una relazione dell'amministrazione di Montefiorino – di uno scambio avvenuto con il Comune di Sassuolo [E. Gorrieri 1970, 548]. Una condizione diffusa era quella dello sdoppiamento delle cariche locali, con la compresenza di un rappresentante fascista e di uno antifascista. Si trattava perlopiù di nomine fittizie, funzionali ai contatti tra le amministrazioni, che erano probabilmente utilizzate alle autorità provinciali della Rsi per poter formalmente dimostrare un controllo sulla zona. La coesistenza di due autorità, ci dice Gorrieri, portò a situazioni paradossali come nel caso di Frassinoro, dove un impiegato comunale – tal Guidi – venne nominato sindaco e contemporaneamente un altro – l'ufficiale di stato civile Piacentini – ricopriva la carica di  commissario prefettizio. Si trattò comunque di una doppiezza solo apparente, in quanto concretamente i Comuni furono governati dalle amministrazioni democratiche [E. Gorrieri 1970, 548-49]. Per questo a tali contatti non si dovrebbe guardare come ad atti di ambiguità da parte del movimento partigiano, ma piuttosto come espressione dell'assunzione di responsabilità di fronte alle gravi difficoltà di sostentamento della popolazione della montagna. In ogni caso, la costituzione del Clnm rappresentò una possibilità in più per il movimento partigiano di accedere alla gestione delle attività delle amministrazioni democratiche: il Clnm invitava infatti i sindaci e le amministrazioni a riconoscere il Comitato quale organo di governo della montagna ed essi accettarono di riconoscerlo come tale [E. Gorrieri 1970, 551].

Rastrellamento invernale ed effetti sulla vita in montagna

Elemento centrale della vita in montagna risultava la penuria di risorse: la lotta partigiana e la gestione della vita civile erano infatti ostacolate da innumerevoli difficoltà materiali; e dalla montagna venivano continuamente indirizzate alla pianura e agli Alleati richieste di aiuto. Nel mese di novembre, dopo circa un mese di appelli inascoltati, ripresero finalmente gli aviolanci sulla zona reggiana. Il 12 circa 25 apparecchi sorvolarono la zona di Toano, Ligonchio e Ramiseto lanciando i paracadute: vennero recuperati 82 fucili, 69 sciarpe, 13 paia di calze, 6 coperte, 96 sacchetti da trincea ed altri vestiti [G. Franzini 1966, 428]. Il problema dei rifornimenti rimase però una costante, tanto che il 18 novembre il Comando unico scrisse al Clnp e al Comando Piazza di Reggio Emilia chiedendo di non far più affluire reclute dalla pianura. In questo quadro non venne meno la vitalità dell'attività partigiana, determinando un movimento di continua negoziazione tra difficoltà materiali e tentativo di aprire spazi di libertà. Novembre rappresentò infatti un mese di estremo rinnovamento per la montagna reggiana: il Clnm invitò a costituire Cln comunali «ovunque sia necessario e possibile» [18], ma soprattutto procedette al riconoscimento del Comitato di difesa della donna, del Fronte nazionale della gioventù, dei comitati di difesa dei contadini e dei consigli operai quali organi aderenti al Cln [19]. Nel mese di dicembre anche le relazioni sulla guerriglia nel reggiano testimoniano un nuovo entusiasmo da parte partigiana: lo stesso Comando unico riferisce, in una lettera del 5 gennaio 1945, di una situazione positiva grazie alla riorganizzazione delle formazioni, ai lanci effettuati dagli Alleati e a una nuova disciplina nelle formazioni [G. Franzini 1966, 469].

Nel mese di gennaio le condizioni di vita della montagna modenese e reggiana vennero però sconvolte da un nuovo rastrellamento. A differenza di quello precedente l'inverno 1944-45 fu particolarmente rigido e nevoso, ed era quindi naturale che i tedeschi ne approfittassero per tentare di disperdere le formazioni partigiane. L'attacco tedesco all'Appennino modenese-reggiano chiuse un ciclo operativo iniziato in regione il 4 novembre 1944 [C. Silingardi 1998, 528]. Nel reggiano già dall'inizio di gennaio il Comando unico ebbe notizia di movimenti sulla strada statale e nella zona del Passo delle Radici, l'aggressione era dunque prevista e ci si preparava al rastrellamento, tanto che venne inviata ai Comandi di brigata una circolare con le direttive da seguire. Dal punto di vista dell'armamento e delle munizioni le forze partigiane sembravano versare in buone condizioni, ma a pesare furono soprattutto le condizioni climatiche. Una prima nevicata aveva coperto il territorio montano a fine dicembre e il 5 gennaio 1945, pochi giorni prima dell'inizio dell'attacco, riprese a nevicare. Il 7 gennaio l'alto Appennino era coperto da un metro di neve e ciò rese impossibile ogni tipo di spostamento [E. Gorrieri 1970, 599].

L'offensiva fu sferrata la mattina del 7 gennaio e nel modenese le direttrici percorse in direzione ovest furono tre: da Pievepelago, da Lama Mocogno e da Serramazzoni. Il primo giorno venne attaccata la zona dei Monti Santa Giulia e San Martino, durante il corso della giornata una colonna tedesca arrivò nei pressi di Frassinoro, dove fu ostacolata da una formazione partigiana ma riuscì egualmente ad occupare il paese. Tre colonne nemiche, dopo aver affrontato le formazioni modenesi attestate ad ovest della strada Giardini, puntarono sul reggiano da Pievepelago-Lama Mocogno-Serramazzoni. Una squadra tedesca, a seguito di uno scontro con una formazione modenese, riuscì ad entrare a Civago. La pressione nemica costrinse parte dei modenesi a spostarsi in territorio reggiano sulla riva sinistra del medio Dolo. L'8 gennaio i partigiani riuscirono a contrastare i tentativi di penetrazione tedesca a Cà de Vanni, nella zona di Strinati e Novellano, alla Faggiola e intorno a Gova. Continuarono gli scontri nella zona dei monti Santa Giulia e San Martino. Sulla Val d'Asta si scatenò una bufera che fece precipitare la situazione, i partigiani attestati a Pian del Monte si trovarono in una situazione disperata, essendo rimasti immobilizzati semisepolti nella neve: ci furono due casi di congelamento ai piedi e otto di svenimento. Al loro arrivo, nel pomeriggio, i tedeschi non trovarono che uomini stremati e Pian del Monte, dopo una breve resistenza, venne abbandonata. Anche nel medio Dolo la situazione andava peggiorando, a Gova alcuni reparti modenesi ebbero qualche successo ma anche in questo settore la pressione si rivelò insostenibile. Lo stesso giorno i tedeschi, favoriti dalla poca visibilità, raggiunsero il Secchia per la strada Felina-Gatta e varcarono indisturbati il fiume, uccidendo due sentinelle. Venne dato l'allarme ma i nemici erano già a ridosso del corpo di guardia; ai partigiani non rimase che tentare un rapido sganciamento. Da Busana altre forze nemiche puntarono in direzione di Ligonchio, dove i partigiani appostati alla Rocca e a Piolo li costrinsero però a fermarsi e ripiegare. Il Comando unico diede ordine di opporre la massima resistenza, ma di preparasi a lasciare le zone rispettivamente occupate [E. Gorrieri 1970, 512]. I giorni successivi a nord di Villa Minozzo i tedeschi subirono l'iniziativa nemica, e a Ligonchio i tentativi di avanzata dei nemici vennero stroncati dalla decisa resistenza partigiana. Il bilancio non era del tutto sfavorevole dal punto di vista strategico, ma la condizione fisica dei partigiani era stata messa a dura prova. Il quarto giorno di lotta si apriva con posizioni alquanto incerte, i nemici minacciavano di investire Villa Minozzo e Ligonchio. Nel territorio di Toano, abbandonato dai modenesi, resistevano alcune posizioni a loro volta minacciate da un'avanzata tedesca da sud. Il cerchio si stava chiudendo e il 13 gennaio i tedeschi sarebbero entrati a Ligonchio. Il territorio attorno ai Comuni di Villa Minozzo, Toano e Ligonchio era stato percorso in tutti i sensi dai nemici, ma i partigiani avevano risposto bene alle direttive dei Comandi. «Il nemico aveva infatti trovato il vuoto: i partigiani si erano volatilizzati sotto i loro occhi stupefatti» [G. Franzini 1966, 517]. Si trattava di un successo per le formazioni partigiane, che pure avevano subito grandi sofferenze durante le operazioni.

Partigiani trasportano il corpo di un civile morto per assideramento sull'Appennino, 27/01/1945 (National Archives Washington)
Partigiani trasportano il corpo di un civile morto per assideramento sull'Appennino, 27/01/1945 (National Archives Washington)

Nel modenese era stato tentato l'accerchiamento delle forze della Divisione muovendosi da Toano a Cavola, ma i partigiani erano riusciti a sganciarsi. Il 10 gennaio venne occupata Gova e dopo 4 giorni si conclusero i combattimenti: i partigiani avevano avuto circa 20  caduti e quasi il doppio dei feriti [C. Silingardi 1998, 530]. Le truppe tedesche avrebbero lasciato la zona pochi giorni dopo, tra il 15 e il 20 gennaio 1945. La zona abbandonata venne investita da una calma che era tuttavia solo apparente: per la popolazione civile la situazione apparve meno grave di quanto accaduto in estate, minori furono le rappresaglie, mentre consistente risultò l'opera di intimidazione condotta nei paesi, soprattutto a Ligonchio [C. Silingardi 1998, 519].

Nella montagna reggiana le truppe nemiche iniziarono il ripiegamento dalla zona rastrellata tra il 17 e il 20 gennaio e subito il Comando unico ordinò il rientro dei reparti nelle zone precedentemente occupate. Il 13 febbraio 1945 il Clnm riprendeva i collegamenti con il Clnp, giustificando il ritardo delle comunicazioni con il rastrellamento subito in gennaio: in montagna si era riscontrato «un po' di panico, causato dalle minacce più che dai danni causati», ma la situazione restava difficile e il Clnm invitava la pianura a fornire nuovi aiuti [20]. Sembrava infatti che la montagna modenese avesse ricevuto consistente sostegno dopo il rastrellamento e il Clnm reggiano domandava quindi se «non sarebbero [sic] possibili tali soccorsi anche alla montagna reggiana, la quale ha dato e dà tanto alla causa nazionale» [21]. Il Cln della montagna reggiana ripristinò anche le comunicazioni con i Comuni, ai quali indirizzava una serie di direttive incoraggiando la preparazione di nuove elezioni.

Anche nel modenese i partigiani ristabilirono rapidamente il controllo militare e civile sulla zona, dimostrando che se l'obiettivo dell'attacco nemico era stato quello di determinare una crisi del movimento partigiano, esso era fallito. Tanto il Comando di Divisione quanto il Cumer giudicarono il rastrellamento come un momento in cui le forze partigiane avevano dimostrato la loro preparazione, sottolineando gli elementi positivi emersi duranti i combattimenti: il tentativo di accerchiamento fallito, il materiale non requisito, il mancato sbandamento e, in generale, il forte spirito combattivo dimostrato [22]. Se il rastrellamento non raggiunse i suoi obiettivi è altresì vero che mise a nudo le fragilità del Comando, che soprattutto dal punto di vista delle comunicazioni con i diversi reparti aveva incontrato non poche difficoltà [C. Silingardi 1998, 531]. La riorganizzazione avvenne comunque in breve e in febbraio si ebbe una consistente ripresa dell'offensiva partigiana: il bollettino del Cumer dà notizia di circa 40 operazioni compiute tra l'8 e il 28 febbraio 1945 [E. Gorrieri 1970, 615-626]. Per quanto si possa trattare di dati sovradimensionati, è innegabile un'intensa ripresa dell’attività operativa, paragonabile a quella del settembre precedente, quando il crollo del fronte era ritenuto prossimo. L'aggressività degli attacchi partigiani determinerà infatti una nuova azione di rastrellamento tedesca tra il 14 al 18 marzo: le colonne naziste penetrate in territorio partigiano, dopo aver occupato la zona di S. Martino-S. Giulia, si ritirarono però spontaneamente senza che si verificassero scontri di rilievo. Con l'inizio della primavera riprese inoltre con vigore l'afflusso di reclute dalla pianura e alla fine del mese la Divisione Modena raggiunse la forza complessiva di circa 3.000 uomini [E. Gorrieri 1970, 619].

Nel frattempo il Comando di Divisione andava incontro a una nuova crisi: i democristiani accusavano i comunisti di essere venuti meno agli accordi sottoscritti a Gova, imputando loro un generale atteggiamento di critica e passività e, in particolare, la loro inazione rispetto all'obiettivo della riduzione degli effettivi. Rilevata questa inefficienza, la Dc proponeva lo scioglimento della Divisione Modena e la costituzione di un organismo di coordinamento dei gruppi di brigate formato da un rappresentante per ciascun gruppo [E. Gorrieri 1970, 632-35]. I comunisti stupiti del mancato riconoscimento delle proprie attività criticarono apertamente la proposta, la quale avrebbe frammentato l'unità della Divisione. La questione venne affrontata in una riunione del Clnm il 5 marzo 1945: in questa sede emerse chiaramente il rifiuto da parte degli altri partiti di accettare la proposta avanzata dai democratici cristiani, che decisero di conseguenza di dichiararsi autonomi dalla Divisione e diedero vita al gruppo Brigate Italia. Questa decisione scatenò durissime reazioni, determinando l’isolamento dei democristiani. La crisi venne riassorbita a seguito di lunghe discussioni nel corso di una riunione del Clnm tenutasi l'8 marzo [C. Silingardi 1998, 541]. Il 13 si incontrarono una cinquantina di esponenti politici e militari della Resistenza e si procedette all'elezione di un nuovo Comando di Divisione, così composto: Wainer (comandante), Lino e Marcello (vice-comandanti), Vittorio Grisi  “Gringo” (capo di Stato Maggiore). A seguito del rifiuto della carica espresso, Lino venne sostituito da William Zironi.

Durante la crisi del Comando di Divisione il Clnm aveva rivestito un compito di mediazione fondamentale e, dopo il rastrellamento, era tornato a porsi come punto di riferimento per la popolazione della montagna. Nonostante ciò, non riuscì mai a stabilire un contatto effettivo con il Clnp, che – a differenza di quanto avvenuto nel reggiano – non procedette mai al riconoscimento dell’organizzazione politica. All'inizio di gennaio la montagna modenese aveva avanzato, ad esempio, vere e proprie richieste di aiuto, oltre che di riconoscimento: si chiedeva al Clnp l'invio di una macchina da scrivere, fogli di carta, ciclostile e timbri con l'intestazione del Cln della montagna [23]. Al termine del rastrellamento tali richieste furono ribadite e, rimanendo ancora una volta eluse, determineranno lamentele dai toni decisi da parte del Clnm.

Per risollevare il morale della popolazione che da tredici mesi è nella zona della lotta attiva, che da tredici mesi è esposta alla rappresaglia, che da tredici mesi sostiene materialmente il peso della guerriglia partigiana, e che ormai è all'estremo di ogni risorsa, occorrono fatti e non chiacchiere, noi purtroppo quassù non possiamo fare che chiacchiere. C'è la necessità di far vedere a queste popolazioni che tutta la nazione è unita e concorde in questa insurrezione contro il nazi-fascismo, che il movimento partigiano non è un movimento di pochi che sono venuti quassù nelle montagne per turbare la tranquillità delle popolazioni, che è vero ed effettivo l'apporto della guerra partigiana alla causa della rinascita italiana [24].

L'aiuto del Cln provinciale risultava infatti fondamentale per far fronte alle difficoltà e per consentire ai Comuni di procedere nelle proprie attività, ma soprattutto per evitare che il movimento partigiano gravasse economicamente sulla popolazione civile. Le condizioni misere della montagna emergono anche dalla corrispondenza intercorsa tra il Clnm e i Comuni: dalle amministrazioni comunali venivano avanzate soprattutto richieste di aiuto per far fronte all'urgenza dei sinistrati e sostenere le famiglie più bisognose [25]. In aggiunta a queste troviamo richieste da parte di singoli funzionari comunali, come nel caso di Teofilo Fontana – sindaco di Montefiorino – il quale richiese al Clnm una somma per saldare la manodopera per i lavori agricoli, giacché egli, impegnato nell'attività comunale, si trovava impossibilitato ad occuparsene [26]. Anche il sindaco di Polinago, avendo osservato che coloro che erano entrati nelle fila dei patrioti in tempi recenti avevano percepito nuove assegnazioni, fece richiesta di tale sussidio in considerazione della sua lunga attività di combattente [27]. Dalla corrispondenza si evince inoltre la volontà del Clnm modenese di avvicinarsi alle amministrazioni comunali, chiedendo ad esse di riconoscerlo quale «organo di governo» della montagna: a gennaio, ad esempio, invitò i 4 Comuni a inviare relazioni più frequenti, ma soprattutto sollecitò i sindaci a stabilire contatti più assidui con «visite di persona» al fine di migliorare le comunicazioni [28]. Il 15 febbraio 1945 venne inoltrata una circolare con la quale si notificava la convocazione di una riunione finalizzata a discutere del problema dell'approvvigionamento della popolazione civile e dei partigiani, della gestione del corpo di polizia, dell'urgenza di assistere gli sfollati e i sinistrati, delle tasse, ma soprattutto per stabilire una linea unitaria da adottare in tali campi [29]. Si trattava anzitutto di lavorare per far fronte alle difficoltà materiali, accanto alle quali pesavano i mai sopiti contrasti tra le forze politiche. Il Clnm si trovò infatti implicato anche nella gestione dei conflitti tra comunisti e democristiani. Per esempio, in aprile elemento di discussione fu la propaganda religiosa anticomunista che veniva effettuata da alcuni parroci della zona: in particolare a Rubbiano, nel comune di Montefiorino, dove era stato distribuito un opuscolo dal titolo Il comunismo rovina la famiglia [30]. Sempre in aprile, il Clnm procedette inoltre al riconoscimento dei diversi gruppi che si erano formati nella zona: nella seduta del 17 aprile venne, ad esempio, accordata una rappresentanza al Gruppo di difesa della donna all'interno del Clnm, così come era stato richiesto [31]. La formazione di tali comitati era da ricondurre al momento di maggior affluenza di partigiani dalla pianura, quando con essi erano arrivate molte staffette e anche in montagna aveva preso piede il lavoro politico delle donne [C. Silingardi 1998, 546]. Nella zona modenese si era costituito anche il Fronte della gioventù, il quale – dopo esser stato riconosciuto dal Clnp – ottenne il riconoscimento della montagna [32].

Ancora una volta si riscontra una vitalità politica che tentava di farsi spazio nonostante la miseria. Il Clnm avanzò, ad esempio, una proposta per la realizzazione di un documentario sulle rappresaglie subite dalla montagna: con questo obiettivo chiedeva a ogni Comune di inviare materiale, fotografico o scritto, inerente l’argomento [33]. Sebbene sia verosimile ipotizzare che il progetto non  abbia avuto la forza di avere seguito, esso mette in luce quello scarto tra aspirazioni e realtà che dominò nella zona libera tanto durante l'estate, quanto in questa fase: la costante tensione tra intenti e condizioni materiali.

I provvedimenti dei Comuni

Per concludere il quadro può esser utile dar infine conto dei provvedimenti che regolarono la vita nei Comuni modenesi e reggiani durante fase autunnale. L'analisi di tali misure permette infatti di cogliere le condizioni materiali e le difficoltà che il movimento partigiano si trovò ad affrontare nella gestione della zona. Guardare a questi provvedimenti, alle scelte, alle priorità, agli ambiti di intervento rappresenta un essenziale tassello necessario a un doppio livello di comprensione, rivolto al tempo stesso alle aspirazioni di lotta e alle reali possibilità d’attuazione connesse alle condizioni materiali.

Tanto nella montagna reggiana quanto in quella modenese la questione dell'approvvigionamento e del reperimento dei generi alimentari si rivela prioritaria nell'agenda delle amministrazioni. La  montagna, isolata com'era, poteva infatti muoversi in sole due direzioni: tentare di ricostruire le comunicazioni con la pianura, spesso difficoltose a causa della distruzione di ponti e strade; oppure provare a frenare l'esportazione di generi alimentari presenti in montagna. In ogni caso i rapporti con la pianura erano fondamentali e in questo senso vanno lette le numerose richieste avanzate dai Comuni per la ricostruzione dei ponti [P. Parisi 1975, 29]. Nel Comune di Montefiorino durante  una seduta della giunta si discusse, ad esempio, della necessità di riaprire le vie verso Modena, ma soprattutto di poter disporre di un autocarro per facilitare i rifornimenti [34]. Nella zona modenese venne inoltre proibita l'esportazione di bestiame: il Clnm invitò i vari Comuni a procedere alla denuncia del bestiame entro il 12 marzo e abbiamo riscontro dei censimenti effettuati da tutti i Comuni entro quella data. Il Clnm si occupava di distribuire la carne secondo un criterio proporzionale tra i 4 Comuni modenesi, e chiedeva a coloro che non avessero inviato il quantitativo richiesto per tempo, di farlo al più presto, per meglio procedere alla distribuzione [35]. Nel reggiano il Clnm gestiva tali questioni già alla fine di novembre, diramando una circolare ai consiglieri e ai membri delle Commissioni comunali, nella quale dichiarava:

per venire incontro a tutti i cittadini che hanno ceduto merci e prestato servizio ai partigiani, ottenendo in cambio una parte di denaro e la rimanente parte in buoni, o addirittura soltanto buoni non sempre muniti di timbro dei comandi superiori e firme dei comandanti. Vi preghiamo perciò di ritirare tutti i buoni rilasciati ai cittadini delle vostre frazioni [36].

Il Comitato della montagna reggiana aveva inoltre disposto che i generi in eccedenza fossero indirizzati alle formazioni garibaldine presenti nella zona [37]. La gravità della situazione portò all'instaurazione anche di accordi diretti tra i Comuni della montagna, funzionali allo scambio di generi alimentari e al sostentamento. Il Comune di Toano, dopo aver ripartito equamente il grano nel proprio territorio, mise ad esempio a disposizione del Comune di Ligonchio 800 quintali di grano e le due amministrazioni si accordarono per il ritiro delle derrate [38].

Se prioritario per le amministrazioni comunali era il tema dell'approvvigionamento, esse tentarono parallelamente di non scoraggiare la produzione imponendo prezzi troppo bassi ai generi alimentari. Nel reggiano il Clnm si preoccupò di emanare direttive che stabilissero prezzi il più possibile uniformi nei territori della zona libera. Fissò il prezzo del grano per tutti i Comuni, tentando di definire un prezzo giusto per i produttori e per i consumatori: per questi ultimi venne stabilito in 260 lire al quintale, mentre il produttore avrebbe ricevuto in più due buoni per il valore di 190 lire [P. Parisi 1975, 37-38]. Molti Comuni della montagna reggiana compilavano veri e propri listini di prezzi per i generi alimentari, come il Comune di Villa Minozzo, il quale aveva fissato il prezzo del grano a 600 lire, in linea con le direttive del Clnm. Nel modenese invece ogni Comune procedeva in maniera autonoma: a Montefiorino il prezzo del latte ad uso alimentare venne fissato a 7 lire al litro; il grano a 700 lire al quintale, mentre i cereali minori da 400 a 600 lire; il prezzo delle uova, dopo lunghe discussioni, venne lasciato al libero commercio, ma se ne vietava l'esportazione fuori dai confini dal Comune, a meno che questa non fosse regolata in un sistema di scambi [39].

Nel reggiano già a novembre il Clnm si era preoccupato di deliberare in materia di tasse, questo aveva permesso ai Comuni di procurarsi i fondi necessari all'amministrazione attraverso la riscossione anticipata dei tributi sul bestiame o altre quote [40]. Dopo aver riscontrato una certa difficoltà da parte dei Consigli comunali a riscuotere le somme dovute, il Clnm aveva proceduto a definire anche un accordo con la polizia partigiana, la quale era invitata a sostenere le singole amministrazioni nella riscossione delle imposte. Veniva predisposta, ad esempio, la sottrazione di beni per quei cittadini che si rifiutavano di pagare le tasse; o ancora l'intervento della polizia poteva esser richiesto dai Consigli comunali, laddove i cittadini si rifiutassero di sottoporsi alle perquisizioni [41].

Anche per la questione sanitaria, così come per i rifornimenti, pesò notevolmente la condizione d’isolamento dalla pianura e il fatto che i partigiani potevano far riferimento esclusivamente alle proprie risorse interne. Alla fine del 1944 nella zona modenese erano in funzione due ospedali, uno a Civago, l'altro a Fontanaluccia: furono mantenuti in funzione entrambi, ma durante l'inverno 1944-45 fu soprattutto l'ospedale di Fontanaluccia a far fronte alle necessità della popolazione civile, come ci è noto dal registro dal quale risultano curati 52 combattenti e altrettanti civili della zona partigiana [42].

Un'altra questione che si poneva con urgenza all’interno della zona libera era quella dell'aiuto ai sinistrati, ai poveri e agli sfollati. Nel reggiano il Clnm indirizzò una circolare ai Consigli e alle Commissioni comunali affinché approntassero inchieste per stabilire il numero delle vittime causate dalle razzie tedesche e il numero dei deportati in Germania; nonché per definire le condizioni della popolazione civile a seguito dei rastrellamenti, così da poter determinare il numero delle case distrutte e dei campi bruciati [43]. Si trattava di un'inchiesta che avrebbe dovuto dar conto della situazione in montagna e dunque servire per la predisposizione di misure di assistenza. Inoltre, il Comando partigiano chiedeva ai Consigli comunali delle vere e proprie liste delle persone alle quali devolvere gli aiuti, come si evince da un lungo elenco di nominativi compilato dal Comune di Toano in marzo, nel quale troviamo i nomi dei capifamiglia dei nuclei considerati sinistrati: 258 famiglie, per un totale di 1.138 persone. Allegata vi è una lettera indirizzata al Comando generale nella quale si specifica che l'elenco comprendeva sia famiglie sinistrate a seguito delle razzie tedesche, sia famiglie povere [44]. Si ha notizia della predisposizione anche di misure di assistenza immediate. A seguito di una puntata nemica avvenuta in aprile, ad esempio, venne stabilito di conferire un acconto ai colpiti del Comune di Villa Minozzo individuando due diverse categorie di assistiti: una di primo livello che avrebbe ricevuto 5.000 lire; l'altra di secondo livello 2.000 [45].

In entrambe le province si pose inoltre la questione della riapertura e della riorganizzazione delle scuole. Soprattutto nel reggiano venne riservata una notevole attenzione alla presa di distanza da una cultura impregnata di fascismo e nella conseguente scelta degli insegnanti. Nel modenese il Comitato promosse la riapertura delle scuole già nel mese di dicembre, ma risale al 2 gennaio 1945 un vero e proprio «ordine di riapertura delle scuole» [E. Gorrieri 1970, 575]. In ogni caso nel territorio modenese le notizie risultano più scarse rispetto al reggiano, dove il Comune di Ligonchio già il 26 novembre sollecitava l’apertura della discussione in merito agli stipendi degli insegnanti [46]. A dicembre si procedette alla riorganizzazione delle scuole anche a Villa Minozzo, dove si riscontrarono numerosi problemi per definirne la sede. Un problema comune a vari paesi, in quanto il più delle volte gli edifici scolastici erano stati distrutti o occupati dagli sfollati. Nel caso di Villa Minozzo, la sede preposta era infatti abitata da una sinistrata, Battistini Pia. Il Clnm si spese affinché lo stabile fosse lasciato in uso alla sinistrata e la scuola venisse ricostituita all’interno di altri locali, utilizzati in precedenza dalla polizia. In generale il Clnm fornì molteplici indicazioni per l’organizzazione della scuola: occorreva scegliere la maestra più appropriata al compito, farla procedere all'iscrizione degli alunni, valutare che la sede fosse in grado di ospitarli [47]. Il processo di riorganizzazione non risultò però sempre facile: benché il Clnm avesse inviato direttive ai Comuni per la riapertura delle scuole già dall'inizio dell’autunno, questi vi avevano dato seguito solo parzialmente o con notevole ritardo [48]. Per questa ragione il Clnm inviò diversi richiami ai Comuni e, nel febbraio 1945, diffuse una circolare piuttosto aspra:

Il Comitato di Liberazione Nazionale, che ha constatato tale indegno comportamento, non mancherà di segnalare al Provveditorato (non più fascista) agli studi di domani i meriti e i demeriti dei maestri e delle maestre che devono svolgere le loro attività nella zona di giurisdizione. […] INSEGNANTI ATTENZIONE!!! I Comitati di L.N. non combattono solo la divisa e l'oppressore fascista, ma anche e soprattutto l'incoscienza morale, civile, sociale e politica del regime passato. IL C.L.N. osserva e tiene noto. […] Questa  lettera,  a voi  diretta, vuole essere l'ultimo avvertimento e l'ultimo richiamo [49].

Se appare chiara l'importanza rivestita dalla questione della scuola per il Clnm, altrettanto evidente risulta l’autonomia dei Consigli comunali, i quali in ultima istanza potevano scegliere di ignorare le direttive ricevute. I Comuni facevano infatti sapere al Clnm che la mancata riapertura e organizzazione era causata da un effettivo non interessamento della popolazione civile, la quale non sembrava disposta a mandare i propri figli a scuola. Aveva però inciso profondamente anche la devastazione degli edifici scolastici. Da parte del Clnm vi era invece l'idea che i Consigli comunali avessero riservato troppo poca attenzione alla questione: veniva giudicato falso il mancato interesse della popolazione, anche perché era stata rilevata la presenza di piccole scuole private con meno di 10 alunni, alle quali alcune maestre avevano dato vita per iniziativa personale [50]. La questione della scuola si dimostra esemplificativa della difficoltà a tradurre in pratica le direttive del Clnm, e delle impossibilità materiali che nel contesto della montagna sembravano il più delle volte avere la meglio.

Per ovviare ai problemi di comunicazione interna nella montagna reggiana, intorno alla fine di marzo, per iniziativa congiunta del Clnp e del Clnm era stata istituita anche una Giunta amministrativa. Era stato l'avvocato Giannino Degani a riflettere sulla necessità di un organo di coordinamento tra i vari Comuni: trovandosi nella zona liberata si era infatti reso conto di come mancasse un indirizzo unitario alle attività dei Consigli comunali. La Giunta amministrativa, ideata come organismo tecnico che avrebbe dovuto uniformare l'attività dei diversi Comuni, venne formalmente istituita dal Clnm il 24 marzo 1945 ed era composta da: Giannino Degani “Simone” (presidente - Pci); Edgardo Catellani “Blasco” (consigliere - Psi) e Mario Giorgini “Carmine” (consigliere - Dc). Volgendo al termine la lotta di liberazione la sua attività risultò inevitabilmente limitata: si ha infatti notizia solo di un decreto in materia di pascolo e altri provvedimenti di importanza minore [P. Parisi 1975, 49].

Un ultimo aspetto da prendere in considerazione è quello della giustizia partigiana: in entrambe le province vennero infatti strutturati sia organismi di polizia, sia organismi giudiziari. Per quanto riguarda la zona reggiana Massimo Storchi ha analizzato l’attività del Tribunale partigiano del Comando unico delle Brigate Garibaldi e Fiamme Verdi, operante tra l'ottobre del 1944 e l'aprile del 1945 [G. Focardi, C. Nubola (eds.) 2015, 135-150]. Il Tribunale venne istituito durante la fase di riorganizzazione della zona libera in seguito al rastrellamento estivo: forte era l'esigenza di un nuovo indirizzo nella gestione del territorio e chiara la necessità di limitare e organizzare l'uso delle violenza, in precedenza spesso sommaria e animata dal desiderio di vendetta. Il nuovo organismo fu costituito il 20 settembre 1944 e nel mese di ottobre iniziò le sue sedute; da subito si rese evidente l'importanza di un corpo di polizia che fosse d'ausilio al nuovo Tribunale, a cui venne data vita il 29 ottobre [G. Focardi, C. Nubola (eds.) 2015, 136-139]. A seguito dell'istituzione del Tribunale unico veniva poi presa la decisione di organizzare un Carcere unico: questo doveva sostituire le due carceri che funzionavano nella zona dal luglio del 1944, le quali rispondevano alle brigate di zona e ai Tribunali di brigata.

L'organizzazione del Carcere unico venne affidata a Gino Rozzi “Oscar” ed esso funzionò parallelamente al Tribunale fino alla liberazione. Tale struttura poneva questioni nuove e complesse per la lotta partigiana, ma al tempo stesso appariva di fondamentale importanza soprattutto rispetto alla ridefinizione dei rapporti con la popolazione montana. In seguito alle violenze dell'estate era infatti necessaria una ricomposizione della relazione con le comunità locali, la quale si giocava in gran parte nella capacità di gestione dell’ordine pubblico all’interno della zona libera e nella possibilità del movimento partigiano di porsi come punto di riferimento in montagna. Nel modenese la proposta di costituire un corpo di polizia venne avanzata più tardi, durante la riunione di Gova: si ha notizia di 3 stazioni di polizia ubicate a Prignano, Frassinoro e Polinago, mentre il Comando centrale fu stabilito a Farneta, nuovo centro della zona partigiana modenese. La polizia era incaricata di svolgere compiti sia militari che civili: controllava l'attività dei partigiani sul territorio e si occupava delle funzioni tipiche di un presidio di polizia, dal perseguimento di ladri e delinquenti comuni al controllo della popolazione. Nonostante il Consiglio comunale di Frassinoro avesse espresso soddisfazione per l'operato dell’organismo [51], il corpo di polizia locale manifestava scontento a causa dell'esiguo numero di agenti disponibili, che rendevano difficile assicurare un pieno controllo sulla zona [52]. Numerosi furono i problemi connessi al rapporto con la popolazione, soprattutto relativi alla condotta degli agenti: frequenti risultavano gli episodi di violenza e i soprusi, come si evince dalle denunce presentate al Clnm. Quest’ultimo il 16 aprile procedette infatti alla formazione di una commissione di inchiesta, che tra gli altri aveva il compito della «sorveglianza generale, politica e morale della polizia stessa» [53]. Qualche giorno dopo venne diramato al Comando centrale di polizia un estratto della seduta del Clnm del 17 aprile, nel quale venivano ribaditi i compiti e le prerogative del corpo di polizia: esso veniva definito un organismo militarizzato alle dirette dipendenze del Comando di Divisione, sul quale il Clnm esercitava però un controllo politico e morale [54].

Per comprendere la reale attività svolta della polizia partigiana utili si dimostrano gli elenchi dei fermi nel mese di marzo, nei quali sono specificati i motivi dell’arresto: per la maggior parte – come prevedibile – si tratta di accuse di spionaggio e di collaborazione col nemico, ma troviamo anche reati semplici, riconducibili ad un orizzonte di delinquenza comune, che vanno dalla rapina a mano armata, agli abusi su minorenni, al mercato nero [55]. Con circolare del 2 marzo 1945 venne istituito anche nella montagna modenese il carcere: la nuova struttura poneva problemi del tutto inediti per i partigiani. Si rese necessaria la definizione di un sistema di regole finalizzato a organizzarne il funzionamento: «nessun prigioniero poteva essere consegnato ad alcuno senza un permesso del giudice istruttore» [56]. Il Clnm emanò infatti il 31 marzo 1945 la circolare Norme per l'amministrazione della giustizia: in essa venivano definite regole di condotta per gli agenti, ai quali non era permesso di «violare la libertà personale di alcuno senza ordine superiore che ne autorizzi il fermo»; veniva quindi espresso il «divieto di violare l'incolumità di coloro che vengono tratti in arresto o fermati per motivi di sicurezza», così come quello per chi conduceva gli interrogatori di ricorrere a mezzi violenti, i quali avrebbero potuto compromettere la veridicità delle  informazioni acquisite [57]. A pochi giorni dalla liberazione, nella seduta del Clnm modenese del 17 aprile, il Pci avanzò infine due ulteriori proposte: l'istituzione di un tribunale militare permanente; e la definizione di misure detentive specifiche circa il trattamento dei prigionieri tedeschi. Quali la costituzione di un campo di concentramento dove venissero ridotte al minimo le razioni di pane e alimenti, e in cui – in caso di assoluta necessità – sarebbe stato «riservato agli internati un trattamento conforme allo stile tedesco» [58].

5. Conclusioni

Al termine di questo quadro di sintesi sull’esperienza della zona libera di Montefiorino nella seconda fase, è possibile tentare di formulare alcune osservazioni di sintesi. A caratterizzare il periodo dell’autunno-inverno 1944-45 fu anzitutto la fine della gestione unitaria: se durante l'estate le forze partigiane modenesi e reggiane avevano operato congiuntamente, a seguito del rastrellamento questa fusione non si diede più. Da quanto ci è noto durante l’intera fase si tenne infatti un solo incontro congiunto promosso dal Clnm modenese, il 18 aprile 1945, a pochi giorni dalla liberazione, nel quale furono affrontate questioni relative al sostentamento della popolazione e delle formazioni sul territorio [C. Silingardi 1998, 518]. Tale elemento di discontinuità rispetto all'estate appare meno netto, e più comprensibile, volgendo lo sguardo con maggiore attenzione alla fase estiva, e osservando i limiti di un'unione che appare più formale che sostanziale. Quest' unica riunione fra i due Comitati della montagna nell’aprile 1945 era inoltre legata a questioni di sopravvivenza, il che ci consente di tornare a riflettere sulle difficoltà materiali che caratterizzarono la vita in montagna tanto nella prima fase, quanto nella seconda. Mettendo in luce tali difficoltà è stato possibile svestire le vicende dei Comuni liberi della retorica celebrativa, che spesso ha dominato le narrazioni sui territori partigiani. Al tempo stesso – nonostante gli accorgimenti e le cautele – ci pare importante far emergere le novità che accompagnarono l’occupazione partigiana: durante la gestione di Montefiorino si aprì infatti lo spazio per pratiche di autogoverno, sulle quali una valutazione critica è doverosa, ma che rappresentarono una rottura profonda rispetto al passato fascista. Si tratta di novità avviate nella zona durante l'estate, cariche di acquisizioni che si sarebbero rivelate fondamentali per la gestione del territorio anche in autunno. In questo senso, non sembra azzardato leggere la seconda fase come figlia della prima, dei suoi errori e dei suoi insegnamenti. La riflessione su tali pratiche permette inoltre di confermare l'improprietà dell’uso di termini quali «repubblica» e la parzialità di quelle letture che presentano i territori partigiani quali dirette anticipazioni della nuova Repubblica democratica. Questa improprietà appare tanto più vera se guardiamo al caso di Montefiorino, dove si assiste più che all'emergere di nuove pratiche di amministrazione del territorio, al ripristino di usi e tradizioni locali. Si pensi a questo proposito alle elezioni nei Comuni, nelle quali venivano chiamati a votare i capifamiglia – anzitutto per ragioni di semplicità e rapidità – ripristinando in tal modo una tradizione pre-fascista con cui la popolazione aveva familiarità. Si trattò di pratiche che indubbiamente rappresentarono una frattura netta e una sfida verso il fascismo, che devono però essere contestualizzate in quello spazio di continua contrattazione tra il cambiamento e le difficoltà materiali, tra le aspirazioni e l'immaturità politica.

In conclusione può esser utile tornare sulle questioni da cui siamo partiti, sulle domande che hanno stimolato l’avvio di questa ricerca e, dunque, sulla polemica storiografica della quale si è dato conto in apertura. Il confronto fra la posizione di Gorrieri – da un lato – e di Arbizzani e Casali – dall’altro – può infatti suggerirci ancora qualche riflessione tanto sulla memoria di Montefiorino, quanto su quella delle zone libere. La polemica insiste anzitutto su due elementi: l'esistenza o meno di una  seconda Repubblica di Montefiorino; la presenza di una memoria divisa, in ragione anzitutto di identità politiche diverse. L'idea di una seconda Repubblica di Montefiorino, comprendente i Comuni modenesi, appare essenzialmente legata alla figura di Ermanno Gorrieri, centrale nella storia della Resistenza modenese. Il fatto che si parli di una ripresa della zona libera esclusivamente nel territorio modenese fa emergere un aspetto centrale della memoria: cioè il suo raccogliere «il passato con una rete dalle maglie più larghe di quelle della disciplina tradizionalmente chiamata storia, depositandovi una dose ben più grande di soggettività, di ‘vissuto’» [E. Traverso 2006, 9]. In questo senso, proprio «il vissuto» risulta centrale in quella che sarà la rappresentazione collettiva delle vicende legate a Montefiorino. Un secondo aspetto su cui la polemica storiografica invita a riflettere è quello di una memoria non pacificata: a fare da sfondo al dibattito è infatti uno scontro politico, e la costruzione di differenti narrazioni che da esso muovono. Il conflitto tra le forze politiche – e dunque, la mitizzazione da una parte e la svalutazione dall'altra dell’esperienza autunnale – va però ben oltre il caso di Montefiorino, avendo caratterizzato in generale le diverse narrazioni della Resistenza prodotte fino a metà degli anni Ottanta [F. Focardi 2005]. Inoltre il fenomeno delle zone libere – forse più di altri – in virtù degli esperimenti di autogoverno di cui è portatore, appare funzionale ad introdurre la Resistenza in un quadro istituzionale e, dunque, alla costruzione di quella mitologia fondativa necessaria ad ogni comunità politica. Le narrazioni che sono state fatte di queste vicende sembrano in ultima istanza aver prodotto rappresentazioni semplicistiche, al riparo da ogni contraddizione. Ma proprio in virtù di tali rappresentazioni, lo studio delle zone libere costituisce un terreno particolarmente fertile per indagare lo scarto tra realtà e rappresentazione. Nella ricerca su tali territori, nello scavo all'interno delle loro specifiche rappresentazioni, si pongono inevitabilmente alcune questioni: che tipo di memoria hanno prodotto tali rappresentazioni? L'oblio della complessità ha contribuito alla produzione di una memoria comune che metta al riparo dell'emergere di nuovi fascismi? Le risposte a questi interrogativi non paiono rassicuranti, al tempo stesso la formulazione di tali domande indica nuovi sentieri da percorrere e suggerisce nuove sfide; ci invita a far emergere le contraddizioni, esortandoci a non rinunciare alla definizione di quella stessa complessità che caratterizza la storia delle zone libere partigiane.


 

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Note

1. Diverse sono le direttive emanate dal Clnai a partire dal 2 giugno 1944 per l'organizzazione delle zone libere, cfr. M. Legnani 1969, 3-11.

2. Cristallo al Comando generale, s.l., 14 luglio 1944, in C. Silingardi 1998, 270.

3. Per un quadro completo sulle Repubbliche partigiane cfr. M. Legnani 1969.

4. Le perdite partigiane sono quantificate in circa 50 morti e altrettanti feriti [Silingardi 1998, 288-89].

5. Notiziario Gnr, 29/11/1944, in C. Silingardi 1998, 506.

6. Ai comitati di liberazione regionali e provinciali, s.l., 30/08/1944,  in Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Reggio Emilia (d'ora in poi Istoreco), Archivi della Resistenza, b. 2A, f. 1 Cln Alta Italia.

7. Il Clnai ai Cln regionali e provinciali sulla preparazione dell’insurrezione, 2/06/1944, in M. Legnani 1968, 58-62.

8. Per una dettagliata ricostruzione della polemica attorno al passaggio oltre le linee del fronte di Armando, cfr. E. Gorrieri 1970, 467-477.

9. Al Commissario generale delle formazioni del volontari della libertà, s.l., s.d., Istoreco, Archivi della Resistenza, b. 2A, f. 5 Cln zona montana.

10. Direttive per l'organizzazione della vita civile nelle zone liberate totalmente o parzialmente di garibaldi, s.l., 23/09/1944, ivi.

11. Cfr. Verbale di seduta Clnm, s.l., 11/11/1944, ivi.

12. Il Clnm al Clnp di Reggio Emilia, s.l., s.d., ivi.

13. Al Comando generale delle formazioni partigiane, s.l., 17/11/1944, Istoreco, Archivi della Resistenza, b. 3G, f. 5 Comuni liberi.

14. Il Clnm al Clnp di Reggio Emilia, s.l., s.d., Istoreco, Archivi della Resistenza, b. 2A, f. 5 Cln. zona montagna.

15. Il Clnm al Clnp di Modena, s.l., 7/12/1944, in Archivio dell'Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Modena (d'ora in poi Isrsc),  Clnm, b. 89, f. 1 Carteggio ottobre ’44 - aprile '45.

16. Ibidem.

17. Il Clnm al Clnp di Modena, s.l., 16/12/1944, ivi.

18. Verbale di seduta Clnm, s.l., 11/11/1944, Istoreco, Archivi della Resistenza, b. 2A, f. 5 Cln zona montana.

19. Ibidem.

20. Il Clnm al Clnp di Reggio Emilia, s.l., s.d., Istoreco, Archivi della Resistenza, b. 2A, f. 5 Cln zona montagna.

21. Ibidem.

22. Ibidem.

23. Il Clnm al Clnp di Modena, s.l., 3/01/1945, Isrsc, Clnm, b. 89, f. 1.

24. Il Clnm al Clnp di Modena , s.l., 26/01/1945, ivi.

25. Al Clnm, s.l., 7/02/1945, ivi.

26. Il sindaco al Clnm, Montefiorino, 10/02/1945, Isrsc, Clnm, b. 90, f. 4.

27. Il sindaco al Clnm, Polinago, 3/04/1945, ivi.

28. Circolare Clnm, s.l., 27/01/1945, Isrsc, Clnm, b. 89, f. 1.

29. Circolare Clnm, s.l., 15/02/1945, ivi.

30. Verbale di seduta Clnm, s.l., 17/04/1945, ivi.

31. Ibidem.

32. Al Clnm, Modena, 23/04/1945, Isrsc, Clnm, b. 90, f. 12.

33. Il Clnm ai Comuni, s.l., 22/02/1945, Isrsc, Clnm, b. 89, f. 1.

34. Il Consiglio comunale al Clnm, Montefiorino, 23/04/1945, ivi.

35. Il Clnm ai Comuni, s.l., 23/03/1945, Isrsc, Clnm, b. 89, f. 1.

36. Circolare Clnm ai consiglieri e ai membri delle Commissioni comunali, s.l., 28/11/1944, Istoreco, Archivi della Resistenza, b. 2A, f. 5 Cln zona montagna.

37. Il Clnm ai Comuni, S.l. , 29/11/1944, ivi.

38. Approvvigionamento grano per il comune, s.l., 26/11/1944, Istoreco, Archivi della Resistenza, b. 32G, f.4 Archivi comunali.

39. Verbale delle deliberazioni del Consiglio comunale, Montefiorino, 26/01/1945, Isrsc, Clnm b. 89, f. 1.

40. Verbale di seduta Clnm, s.l., 11/11/1944, Istoreco, Archivi della Resistenza, b. 2A, f. 5 Cln zona montana.

41. Il Clnm ai Comuni, S.l., 19/12/1944, Istoreco, Fondo Archivi della Resistenza, b. 3G, f. 6 Amministrazioni democratiche e Cln montagna.

42. Circolare Clnm, s.l., 15/02/1945, Istoreco, Archivi della Resistenza, b. 2A, f. 5 Cln zona montagna.

43. Circolare Clnm ai consiglieri e ai membri delle Commissioni comunali, s.l., s.d., ivi.

44. Il Consiglio comunale al Clnm, Toano, 7/03/1945, Istoreco, Archivi della Resistenza, b. 3G, f. 6 Amministrazioni democratiche e Cln montagna.

45. Il Clnm al Consiglio comunale di Villa Minozzo, s.l., 15/04/1945, Istoreco, Archivi della Resistenza, b. 2A, f. 5 Cln zona montagna.

46. Il Clnm al Consiglio comunale di Villa Minozzo, s.l., 15/04/1945, Istoreco, Archivi della Resistenza, b. 2A, f. 5 Cln zona montagna.

47. Circolare Clnm, s.l., 16/12/1944, Istoreco, Archivi della Resistenza, b. 2A, f. 5 Cln zona montagna.

48. Circolare Clnm, s.l., 15/02/1945, ivi.

49. Ibidem.

50. Ibidem.

51. Il Consiglio comunale al Clnm, Frassinoro, 22/02/1945,Isrsc, Clnm, b. 89, f. 4 Polizia 1944-1945.

52. Il Comando di polizia al Clnm, Frassinoro, 20/03/1945, ivi.

53. Circolare Clnm, s.l., 16/04/1945, Isrsc, Clnm, b. 89, f. 1.

54. Il Clnm al Comando centrale di polizia, s.l., 20/04/1945, ivi.

55. Elenco dei fermi marzo 1945, s.l., s.d., Isrsc, Clnm, b. 89, f. 4 Polizia 1944-1945.

56. Carcere generale, s.l., 2/03/1945, ivi.

57. Norme per l’amministrazione della giustizia, s.l., 31/03/1945, ivi.

58. Verbale seduta Clnm, s.l., 17/04/1945, Isrsc, Clnm, b. 89, f. 1.