Nel febbraio del 2016 una discussione si è sviluppata nella comunità degli storici in merito all’opportunità di realizzare nella ex Casa del fascio e dell’ospitalità di Predappio un museo del fascismo. Allora firmai a favore dell’intenzione, dichiarata dal sindaco di quel paese, di contrastare in questo modo la caratterizzazione neofascista che quel luogo ha assunto per esservi localizzate la casa natale di Mussolini e la sua tomba. Oggi, a distanza di 21 mesi, la mia opinione è cambiata, e vorrei motivare il perché.

È cresciuta di intensità in questo periodo la presenza neofascista in quel paese; l’ultima manifestazione eclatante è la marcia di oltre 2000 neofascisti per celebrare il 95° anniversario della marcia su Roma. Predappio si sta configurando sempre più come una sorta di enclave neofascista nel territorio della Repubblica italiana; specifico che quando parlo di enclave neofascista non mi riferisco certo ai cittadini di Predappio, che sono le vittime di una situazione inaccettabile, tollerata troppo a lungo da chi avrebbe dovuto intervenire. Ritengo che l’idea di contrastare questo dato con un museo sia astratta e anche pericolosa, perché metterebbe inevitabilmente in contatto comitive di studenti portati a visitare il museo con una presenza neofascista oggi egemone sul territorio. È un problema di ordine pubblico che va risolto impedendo le manifestazioni più eclatanti, e riproponendo nella prossima legislatura il progetto di legge Fiano per consentire la chiusura dei negozi che vendono simboli del passato regime. Risolta in tal modo la questione della caratterizzazione del paese come luogo elettivo del neofascismo, sarà del tutto inutile la presenza del museo in una zona fuori mano e poco significativa.

Non vi è infatti nessuna ragione per creare un museo a Predappio, località non significativa nella storia del fascismo: la casa natale di Mussolini non ha nessuna importanza per la storia del futuro fascismo, e Predappio riguarda piuttosto la storia del neofascismo, dato che è frequentata soprattutto per la tomba di Mussolini, con l’incessante pellegrinaggio che attira, con tanto di guardie d’onore in divise del Ventennio, e per la presenza di negozi che vendono simboli fascisti.

Sono favorevole a fare un museo del fascismo, ma in una grande città, perché a Predappio, oltre a tutte le ragioni che lo rendono un luogo inopportuno, non avrebbe nemmeno il rilievo che potrebbe assumere a Roma, a Milano o anche a Bologna. La discussione in atto ha avuto comunque il merito di imporre all’attenzione delle autorità e dell’opinione pubblica la necessità che l’Italia si doti di un museo sul Ventennio: chiunque ha una qualche influenza nella sfera pubblica – associazioni, operatori culturali, ricercatori, giornalisti, politici – si attivi perché nell’arco della prossima legislatura il tema non venga lasciato cadere. In Italia, in città più significative del piccolo centro romagnolo per la storia del fascismo, vi sono decine di edifici pubblici dismessi, dove un progetto simile potrebbe essere fruttuosamente collocato.

Quanto all’ex sede della Casa del fascio e dell’ospitalità di Predappio, le si tolga la prima denominazione (casa del Fascio), e si lasci l’ospitalità, riutilizzando i fondi che finora sono stanti stanziati per la sua ristrutturazione, ed eventualmente aggiungendone altri da parte delle istituzioni statali, per trasformarla in un centro di accoglienza e di attuazione politiche di integrazione per migranti. Ricordo a tal proposito che la casa natale di Hitler, nella cittadina di Braunau am Inn, in Alta Austria, che si voleva abbattere per evitare visite di nostalgici, ospiterà invece la sede di una associazione caritatevole per disabili.

Tornando a Predappio, sono inoltre perplesso sulla posizione del personaggio che ha promosso l’iniziativa, il sindaco Giorgio Frassineti: è stato il principale promotore dell’operazione per togliere a Predappio, diceva, la connotazione neofascista, e ha fatto acquisire al Comune la proprietà della Casa del fascio. Alcune sue prese di posizione evidenziano invece ambiguità preoccupanti. Il 24 aprile 2015, in un’intervista pubblicata su “Il tempo.it”, rivendicava il «grande consenso popolare» al fascismo (paragonandolo a quello di Berlusconi) e rivelava di avere un enorme fascio littorio inciso sulla sua scrivania, che lui aveva messo sotto vetro per proteggerlo, aggiungendo: «io guardo i simboli del fascismo e non sento il rumore del regime, ma ripercorro una parte della storia d’Italia». Il 25 agosto 2015, in un’intervista al “Resto del Carlino”, pagine di Forlì e provincia, si diceva d’accordo con la proposta di riaccendere il faro della Rocca delle Caminate (residenza mussoliniana dove si riunì per la prima volta il governo della Rsi) come «magnete turistico». Infine, l’11 luglio 2017, in un’intervista al “Messaggero”, si dichiarava contrario alla legge Fiano («si fanno troppe polemiche sui gadget e sui saluti romani»), lasciava intravedere l’esistenza di un fascismo buono («ha avuto tante facce, non solo quella tremenda degli ultimi anni») e si lanciava in un ardito giudizio storico sulla marcia su Roma («non fu un golpe, ma una manifestazione che portò da parte del re a dare l’incarico a Mussolini per un governo di coalizione. E poi vogliamo ancora negare il consenso che ebbe il regime?»). Tali affermazioni mi sembrano gravi, e gettano un’ombra sull’intera operazione: le dittature spesso ottengono vasti consensi ma questo non attenua il loro carattere liberticida. Certo, il tema del consenso è cruciale: non siamo più ai tempi in cui Renzo De Felice veniva accusato di difendere il regime perché ne evidenziava la popolarità. Sappiamo però che sotto le dittature repressione e consenso sono due facce della stessa medaglia; perciò è equivoco adombrare l’esistenza di un fascismo “buono”, pur nella consapevolezza del rapporto complesso che instaurò con la società italiana. Il consenso vi fu, ma in gran parte indotto dal controllo asfissiante dello stato sulla vita della popolazione.

Quanto ai simboli del regime, vanno studiati, ma non esposti nell’ufficio di un sindaco. Non dico che la scrivania di Mussolini andasse distrutta, ma si poteva metterla in un magazzino e sostituirla con un’altra. Stiamo attenti a non banalizzare i simboli, con la motivazione che vanno “storicizzati”: essi posseggono ancora oggi una forte valenza politica. Di recente il sindaco di Affile, nel Lazio, ha costruito con denaro pubblico un monumento a Rodolfo Graziani (ed è stato giustamente condannato per apologia del fascismo).

In realtà il paese non ha fatto fino in fondo i conti con il ventennio: la stessa Resistenza, pur con i suoi grandi meriti, è stata usata come alibi anche da chi non l’aveva fatta e magari sotto il regime si era trovato abbastanza bene, perché credeva nella propaganda del regime o comunque non dava peso allea soppressione delle libertà politiche e sindacali. Credo che l’estrema destra attuale abbia un rapporto soprattutto retorico con il passato regime, certo non può resuscitarlo per come è stato storicamente, ma indubbiamente vi si richiama come fonte di identità politica attuale.

Quanto alla marcia su Roma, si trattò indubbiamente di una manifestazione armata eversiva, che certo ottenne il risultato voluto a causa della complicità del Re e del benevolo sostegno di una parte delle forze politiche moderate, ma ciò non toglie che rappresentò una forte rottura del quadro democratico.

In ogni caso, proprio per la delicatezza della questione, il progetto avrebbe dovuto essere elaborato e discusso in stretto collegamento con le realtà locali, che non sono solo il Comune di Predappio. E invece un comunicato del 13 novembre 2017, firmato dall’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Forlì-Cesena, e da varie associazioni, ha lamentato che «l’intera operazione è stata portata avanti con un’impronta dirigista da un pugno di persone, senza che si aprisse un confronto costruttivo con il territorio». Il documento sottolinea «la noncuranza con cui amministratori e progettisti continuano ad affrontare il problema del contesto in cui il “museo” nascerà», e sostengono che in simili condizioni il progetto «rischia di essere un clamoroso autogoal servito su un piatto d’argento a un turismo di nostalgici e di “curiosi”».

Leggendo il progetto museale, ora in mostra presso l’ex casa natale di Mussolini e consultabile on line nel sito Progetto Predappio, risultano quelli che a me sembrano alcuni limiti. Dal punto di vista museografico il progetto appare adeguato alla struttura destinata a ospitarlo. Quanto alla relazione di accompagnamento, non capisco innanzi tutto a quale damnatio memoriae sia stato soggetto il fascismo: sul piano scientifico, è uno dei temi più studiati, sul piano della memoria pubblica uno di quelli sui quali la discussione si è maggiormente concentrata, anche per la costante presenza in parlamento di formazioni politiche e personaggi che a quel passato più o meno apertamente si rifacevano. Vi sono inoltre alcune carenze da colmare: è completamente assente qualsiasi riferimento al confine orientale, nonostante il ruolo che questo assunse con la lotta contro lo “slavo” – lo straniero per eccellenza – nella mobilitazione del primo fascismo. Il Narodni dom, un edificio polifunzionale nel centro di Trieste, sede delle organizzazioni degli sloveni triestini, fu incendiato dai fascisti il 13 luglio 1920: un evento traumatico per la comunità degli sloveni, come ha espresso nelle sue opere lo scrittore Boris Pahor, e la manifestazione del carattere aggressivamente nazionalista del fascismo, che si esplicherà poi nel corso del Ventennio in una dominazione dura nelle zone del confine orientale (ricordo che 26 delle 31 condanne a morte eseguite a seguito di sentenze dal Tribunale speciale furono comminate a cittadini italiani di lingua slovena o croata), che costituisce il contesto delle successive violenze che colpirono questa volta la comunità italiana dopo la fine del conflitto.

Manca inoltre nel progetto qualsiasi riferimento al corporativismo, tratto essenziale dell’ideologia fascista come superamento sia del capitalismo, sia del socialismo, che col mito del “corporativismo integrale” attirò l’interesse di numerosi giovani, attratti dall’illusione di una terza via che dava corpo al mito della rivoluzione fascista. Mi sembra infine che non sia dato un adeguato spazio alla Repubblica sociale, non evidenziando i nessi di continuità fra questa e il fascismo del Ventennio, e facendone quasi una storia a parte.

Un altro tema va affrontato: l’8 dicembre 2017 l’Assessore alla cultura della Regione Emilia Romagna, Massimo Mezzetti, intervenendo polemicamente sulla presentazione del progetto prevista il giorno successivo nella Casa natale di Mussolini, asserendo di non essere stato coinvolto nell’iniziativa, affermava che

il nucleo del progetto deve essere esplicitamente un centro di studio e di ricerca di carattere internazionale sui fascismi e i totalitarismi. Un luogo in cui studenti e ricercatori da tutta Europa possano ritrovarsi nel punto da cui simbolicamente tutto ebbe inizio per studiare le radici dell’aberrazione e ricercare gli antidoti. L’ho più volte ripetuto: è mia convinzione che la parte espositiva multimediale (volutamente bandisco la parola “museo”) deve essere il supporto e non il cuore del progetto, come al contrario oggi sembra ancora essere. Inoltre, bisogna fare molta attenzione al percorso che deve portarci a quella meta. Un percorso in cui i simboli sono sostanza. Per questo ho molte riserve sul luogo scelto per l’esposizione del progetto-aggiunge l’assessore. Non doveva essere la casa natale di Mussolini a ospitare la mostra perché la scelta si presta a molti equivoci e le reazioni negative di queste ore, come quella dell’Anpi nazionale, stanno a dimostrare quanta accortezza richiede questo percorso.

Il sindaco replicava polemicamente sul luogo prescelto per la mostra, ma concordava sul fatto di «fare un centro studi di respiro internazionale». E l’11 dicembre 2017, in un dibattito tenutosi alla trasmissione televisiva Agorà di Rai 3, Alessia Morani, vice capo gruppo del Pd alla Camera dei deputati, ribadiva che il vero fine dell’operazione sarebbe stato il centro studi, non l’esposizione museale.

Queste affermazioni mi lasciano allibito: ma questi personaggi hanno un’idea sia pure vaga di cosa sia e come si costruisca un centro studi di rilievo internazionale? Come si pensa di portare ricercatori anche solo europei a lavorare in un posto dove non vi è un libro, nessun significativo deposito documentario, nessun collegamento con altre istituzioni di ricerca? Cosa verrebbero a fare in questa sorta di “deserto dei Tartari” della cultura? Si guardi, per un confronto (impietoso per noi) il Centro di documentazione di Monaco di Baviera per la storia del nazionalsocialismo (NS-Dokumentationszentrum München), inaugurato il 1° maggio 2015: vi è una mostra permanente, un centro di documentazione e una biblioteca, servizi educativi, spazi per mostre temporanee; i costi di costruzione, ammontanti a 28,2 milioni di euro, sono stati sostenuti dalla Città di Monaco, dallo Stato di Baviera e dal governo della Repubblica federale di Germania. Lo Stato di Baviera ha messo a disposizione il sito e i costi di mantenimento della struttura saranno coperti dalla Città di Monaco [1]. Ma certo, siamo a Monaco, e non a Braunau am Inn, dove solo proporre tutto ciò avrebbe coperto di ridicolo gli assertori di un simile programma.

Chiudo con una notazione: colpisce in tutta la vicenda  il silenzio della rete degli Istituti della Resistenza (con la citata eccezione dell’Istituto di Forlì), su un tema che avrebbe dovuto invece vederla in prima fila nel proporre dibattito, riflessioni, soluzioni.