1. Introduzione

Il fenomeno delle visite dei veterani e dei congiunti dei caduti nei territori interessati da precedenti eventi bellici ha assunto imponenti dimensioni nel Novecento. Dal primo dopoguerra, riallacciandosi a pratiche emerse nel XIX secolo [Bagnaresi 2011], Stati, partiti e enti di vario tipo, ma accomunati dall’intento di promuovere la ritualità nazionalista, organizzarono con frequenza dei “pellegrinaggi patriottici” che coinvolgevano un ampio numero di cittadini, non necessariamente legati da vincoli personali ai combattenti, interessati a rievocare i momenti cruciali e gli atti di eroismo della Grande guerra sui suoi campi di battaglia. Il «battlefield tourism» [Ryan 2007] emerse perciò qualificandosi come fenomeno culturale e politico che condensava i sentimenti collettivi delle società uscite dalla guerra [Tizzoni 2013] e che veniva promosso puntando ad affermarne, rinnovarne e rafforzarne coesione ed identità nazionale [Yeneroglu Kutbay e Aykac 2016]. Nonostante il significativo numero di attori coinvolti, gli studi sul turismo di guerra hanno occupato una nicchia marginale nella letteratura scientifica fino a una decina di anni fa [Butler e Suntikul (eds.) 2013]. L’accresciuta attenzione accademica per questo tema è connessa alla ricorrenza del centenario della Grande guerra. Una ricorrenza che ha incoraggiato numerose iniziative tese a valorizzare i siti del conflitto, proponendoli come attrazioni per un ampio numero di visitatori [Jansen-Verbeke 2016]. Il dibattito emerso attorno a queste iniziative tende soprattutto a suggerire strategie agli attori che guidano i processi attraverso cui i vecchi campi di battaglia vengono individuati, ridisegnati e promossi al rango di beni culturali [Jansen-Verbeke e George 2015] e sottolinea la funzione dei network turistici collegati ai luoghi di guerra come strumento al servizio di un ordine internazionale fondato sul dialogo e la reciproca conoscenza. Una funzione, questa, che si lega alla diffusione di contenuti che stimolano la riflessione sulla condizione delle vittime piuttosto che sugli eroi dei combattimenti, nelle attività proposte ai visitatori. Ciò con l’obiettivo di promuovere un turismo di memoria diverso dalle forme di turismo di guerra che tendono a rafforzare identità e retoriche nazionaliste, o esaltare la violenza bellica. Un turismo in cui lo scopo del viaggio ai luoghi simbolo dei conflitti sia piuttosto quello di compiere un percorso attraverso la storia delle popolazioni che tale violenza subirono [Tizzoni 2013]. Non di meno, perché questa forma di turismo possa svilupparsi occorre che il significato attribuito agli eventi che vengono rievocati sia riconosciuto come condivisibile tanto dalla società locale quanto dai visitatori, sulla base di una comune memoria storica [Jansen-Verbeke 2016].

Il presente saggio intende contribuire al dibattito sulle interazioni fra turismo di guerra e narrazione dei conflitti mondiali in Emilia Romagna esaminando il fenomeno dei pellegrinaggi patriottici che partivano da questa regione per visitare un territorio, il Dodecaneso, che è stato a lungo assente dalla memoria pubblica italiana. Un’indagine condotta nel 2009 da Massimo Peri su una ventina di manuali di storia in uso nelle scuole medie superiori ha evidenziato che la maggioranza non parlava affatto della presenza italiana in Egeo, mentre gli altri le dedicavano solo dei brevi cenni [Peri (ed.) 2009]. Eppure, tale arcipelago, sottratto agli ottomani nel 1912 durante la guerra italo-turca ma rivendicato dallo Stato greco perché abitato da una popolazione in larghissima parte ortodossa e ellenofona, fece a lungo parte della nostra storia nazionale. Considerato una “vetrina” delle virtù imperiali della nazione e oggetto di ambiziosi piani di colonizzazione demografica durante il regime fascista, il Dodecaneso era pure un’importante base militare e fu teatro di scontri fra italiani e tedeschi nell’autunno del 1943. Le isole rimasero sotto il controllo dei nazifascisti fino al maggio 1945, per essere poi occupate dai britannici e cedute a Atene nel 1947.

La rimozione del passato coloniale di questo territorio dalla memoria pubblica italiana nei decenni successivi non ha cancellato i ricordi delle migliaia di coloni e militari che avevano trascorso un periodo in Egeo, portandoli anzi a proporre delle narrazioni nostalgiche. Narrazioni che risultano inevitabilmente conflittuali con quelle elaborate dalle istituzioni greche, che individuano nella presenza italiana nel Dodecaneso un periodo di illegittima occupazione e grave oppressione. Tutto ciò causò una sequela di attriti, compromessi e silenzi quando, dagli anni Settanta, i militari che avevano partecipato alla Resistenza in Egeo iniziarono a organizzare dei pellegrinaggi patriottici tesi a rievocare i giorni trascorsi sulle isole e onorare i propri caduti.

Tale situazione trapela chiaramente dai resoconti di viaggio pubblicati sul “Notiziario” dell’Associazione italiana reduci dell’Egeo (Arde), un’organizzazione, con sede a Parma, fondata da un gruppo di emiliani che avevano partecipato alla Resistenza nel Dodecaneso. Questo saggio intende valorizzare tale materiale partendo da una disamina delle memorie sul ruolo degli italiani in Egeo e sulla Resistenza in quel territorio emerse nel secondo dopoguerra, per passare ad analizzare la loro sedimentazione tra ex coloni e militari e la successiva interazione con quelle greche attraverso il turismo reducistico. L’analisi si conclude interrogandosi sul ruolo di questa interazione nella costruzione di narrazioni condivisibili tra ospiti e visitatori. Un processo, questo, che risulta ancora in divenire, anche se guardato con interesse dalla società dodecanesina.

2. I discorsi pubblici sul Dodecaneso nell’immediato dopoguerra

La prima narrazione sulle vicende del possedimento egeo a essersi sedimentata nella memoria pubblica italiana del secondo dopoguerra è quella degli italo-dodecanesini; i 7.500 civili residenti nell’arcipelago che non optarono per la cittadinanza ellenica e che, per questo motivo, furono espulsi dalla Grecia [Insolvibile 2010]. La loro comunità entrò così a far parte della massa di 200.000 persone che tra il 1942 e il 1949 dovettero abbandonare i territori dell’impero fascista e cercare rifugio nella madrepatria [Ertola 2018, 11]. Per costoro il rimpatrio fu un’esperienza traumatica, resa più difficile dai pregiudizi delle comunità di accoglienza e dalle condizioni sociali della madrepatria [Audenino 2016]. Non suscita meraviglia che, in questa fase di marginalizzazione, una parte significativa degli italo-dodecanesini abbia elaborato una rappresentazione vittimistica dell’espulsione dal territorio che avevano abitato come comunità dominante e un nostalgico attaccamento al passato. Nello stesso periodo dei sentimenti delusori erano condivisi dai circa 40.000 uomini delle forze armate presenti in Egeo l’8 settembre 1943, la maggior parte dei quali aveva tentato di impedire ai tedeschi di prendere il controllo delle isole, animando l’episodio di resistenza più lungo nella storia delle forze armate italiane: la battaglia di Leros. La sconfitta comportò sommarie rappresaglie (a Kos furono trucidati un centinaio di ufficiali badogliani), deportazioni e internamenti nei campi di prigionia nazisti [Insolvibile 2010]. Anche per costoro il reinserimento nella vita civile fu irto di difficoltà [Labanca N. (ed.) 2000] e caratterizzato da amarezze legate al fatto che i governi in carica non attribuirono grande valore alla Resistenza nel Dodecaneso [Villa 2016].

Nell’immediato dopoguerra, quando l’associazionismo tra i rimpatriati era un fenomeno ampiamente diffuso [Ertola 2018], emersero diversi sodalizi che radunavano ex coloni e reduci del Dodecaneso [Berveglieri 1998, 5-9] e si impegnarono in campagne di pressione politica, riprese dalla stampa nazionale, tese a frenare il passaggio delle isole alla sovranità greca. In queste campagne, gli italiani venivano dipinti come estranei a violenze sui dodecanesini, vittime dell’occupazione nazista e bersaglio di gravi vessazioni da parte dei governi ellenici, che disconoscevano i diritti «che ci vengono dalla nostra opera civilizzatrice che trasformò macerie e sporcizia in città e villaggi; dalle nostre sofferenze sotto il bastone tedesco; dal nostro sangue» [Clementi 2013, 247].

In un primo momento, una visione positiva dell’amministrazione italiana sul possedimento fu propagandata anche dalle istituzioni. Ciò avvenne, nel più generale clima della rimozione dalla memoria pubblica dei crimini perpetrati nei territori occupati durante la Seconda guerra mondiale [Focardi 2013] e nelle colonie [Deplano 2017], per un duplice ordine di interessi. Da un lato, le isole erano il principale compenso ottenuto da Atene per i danni inflitti dall’Italia alla Grecia durante la guerra [Fonzi 2012]. Da Roma se ne sottolineò quindi il valore per contenere le richieste di ulteriori riparazioni e si ordinò di distruggere le carte che documentavano le colpe più pesanti dell’amministrazione fascista [Espinoza 2015], senza peraltro riuscire a far sparire dagli archivi locali una mole di documenti relativi alla repressione dell’irredentismo ellenico e alla persecuzione degli ebrei [Clementi 2019]. Dall’altro, per evitare che i rimpatriati gravassero sulle finanze pubbliche, si tentò di ottenerne il rientro nell’arcipelago, presentando la comunità italo-dodecanesina come elemento indispensabile all’economia del territorio [Clementi 2013]. Ne conseguì il tentativo, caratterizzato dall’affidamento delle pubblicazioni ufficiali sull’Egeo – come più in generale sul tema dell’oltremare [Morone 2010] – a personalità che erano appartenute all’amministrazione coloniale, di dipingere con tinte rosee l’amministrazione di Roma. Lo sforzo propagandistico portato avanti dal Ministero degli Affari esteri si concretizzò nella pubblicazione del pamphlet L’Italia a Rodi, preparato dall’ex governatore delle isole italiane dell’Egeo Mario Lago per essere presentato alla conferenza di pace [Espinoza 2015]. Questa pubblicazione insiste soprattutto sul tema dei progressi materiali negli anni Venti e Trenta, affermando che «mercé l’Italia, Rodi e le isole minori del Dodecaneso hanno goduto di un periodo di prosperità e di progresso che più non avevano conosciuto da quando, nel 1522, i Cavalieri Gerosolimitani le avevano dovute abbandonare». La guerra viene invece liquidata, in un paio di righe, come un periodo di sconvolgimenti che non avevano però cancellato «questo miracolo di risurrezione» [L’Italia a Rodi 1946, 21]. Si tratta dunque di una narrazione che faceva leva su uno stereotipo ampiamente propagandato dal fascismo, quello dell’“impero del lavoro” [Ertola 2017, 8-9], per tacere le colpe del regime e dissociarle dalle “virtù” del popolo italiano. Un popolo composto da «brava gente» che, si affermava, non aveva mai condiviso lo spirito del fascismo; nel Dodecaneso come negli altri territori oggetto dell’imperialismo italiano [Del Boca 2006].

Gli interessi sottesi a tale narrazione erano evidentemente contrapposti a quelli greci durante i negoziati. Di conseguenza, i diplomatici ellenici presentarono le realizzazioni di Roma in Egeo come inutili, mentre la stampa sottolineò gli aspetti più oppressivi della dominazione coloniale, dipingendo tutti gli italiani come entusiasti sostenitori del fascismo e complici delle sue politiche. Il trentennio appena concluso entrò nella memoria pubblica greca come un periodo di crisi economica, tentativi di snazionalizzazione e sostituzione etnica, persecuzione della religione ortodossa, costrizione all’esilio degli oppositori [Clementi 2013, 339-40]. Tale narrazione – speculare alla propaganda che partiva dal presupposto che esistessero degli innegabili meriti acquisiti, malgrado tutto, dagli italiani in Egeo – è rimasta egemonica nella memoria pubblica greca. Ciò anche perché essa è in larga parte funzionale a una più ampia interpretazione delle vicende del popolo ellenico, presentato come impegnato da secoli in una lotta tesa a difendere la propria indipendenza e identità contro l’invasore di turno [Rappas 2018].

3. Oblio istituzionale e formazione della memoria reducistica

Se nell’immediato dopoguerra esisteva una conformità di vedute tra il Ministero degli Esteri e le associazioni coloniali, le cui pubblicazioni fungevano da “cassa di risonanza” per le tesi sostenute al tavolo della pace [Ertola 2018], col trattato di Parigi la diffusione di notizie riguardanti dei torti subiti dai connazionali in Egeo e le esternazioni nostalgiche iniziarono a suscitare un aperto fastidio tra i diplomatici, ora preoccupati di normalizzare le relazioni con la Grecia [Fonzi 2012]. Già nel luglio del 1947 la rappresentanza italiana a Atene riferiva che le notizie «di spoliazioni, maltrattamenti e sevizie subite da nostri connazionali al momento del passaggio dei poteri [alle autorità greche] sono completamente infondate». Però, «gli articoli pubblicati da alcuni nostri giornali, che debbono essere stati tratti in inganno da falsi informatori, hanno profondamente irritato le autorità» [1]. Nel novembre successivo, commentando un articolo in cui si lamentava «l’ingiustizia che è stata di recente perpetrata ai danni del nostro paese» nel privarlo del Dodecaneso, i diplomatici ribadirono che «frasi quali quella sopra riportata [...] non possono che turbare la ripresa di amichevoli rapporti» [2]. In questa atmosfera, le vicende dell’Egeo si eclissarono dai discorsi ufficiali. Le ragioni che spingevano a riesumarle erano ormai poco sentite, dal momento che i governi greci stavano rimuovendo dalla memoria pubblica il ricordo delle ferite lasciate dall’occupazione fascista, per esigenze di riconciliazione in ambito atlantico [Focardi 2013, 186], e l’opinione pubblica italiana, concentrata sui problemi della ricostruzione, aveva perso interesse per il passato imperiale [Labanca 2005, 280].

Con ciò, la memoria dell’Egeo italiano rimase un monopolio delle associazioni coloniali, che nelle loro pubblicazioni continuarono a descriverlo in termini autoassolutori, esternando posizioni vittimistiche e lanciando rivendicazioni “irredentiste” per un ulteriore decennio [Fino 1957, 10]. D’altro canto, il mantenimento dei toni polemici e delle rivendicazioni elaborate nell’immediato dopoguerra era ancora funzionale a chiedere, se non un inesaudibile ritorno oltremare, delle facilitazioni per il reinserimento nella metropoli da parte di categorie che si sentivano emarginate e dimenticate dalle istituzioni [Ertola 2018]. Per quanto riguarda l’autorappresentazione dei reduci in tale contesto pare interessante citare l’interrogazione parlamentare presentata dall’ex ufficiale di marina a Leros, e in seguito deputato socialista, Leonetto Amadei il 29 novembre 1948 «sui motivi che suggeriscono una politica che appare rivolta a cancellare rapidamente la memoria dei fatti più significativi della lotta di resistenza delle forze armate italiane all’estero». In questo discorso, Amadei denuncia che

il Ministero della difesa ha [...] sistematicamente sottovalutato l’episodio della resistenza del presidio militare di Lero (Egeo) contro i tedeschi [...] respinge molte proposte di adeguate ricompense militari, nonché di assistenza […] a favore degli eroici combattenti [...], alcuni dei quali sono stati perfino allontanati dal servizio, mentre ufficiali e sottufficiali, che aderirono alla repubblica sociale, sono stati [...] promossi [3].

Nel corso dell’esposizione, Amadei enuncia un secondo nucleo di temi attorno a cui sarà elaborata la narrazione dei reduci del Dodecaneso. Da un lato, il valore militare dell’episodio e, più in generale, l’importanza della Resistenza per la posizione dell’Italia nel dopoguerra. Dall’altro un particolare e specifico significato patriottico legato all’apartiticità, dunque all’unitarietà nazionale, della lotta contro i nazifascisti in Egeo:

Non creda alcuno di voi che a Lero si combattesse per l’Inghilterra. Si è combattuto per l’Italia, esclusivamente per l’Italia. Laggiù si ebbe la grande, immensa, magnifica, illusoria speranza che la nostra lotta, che il nostro sacrificio dovessero servire nel domani [...] allorché venutici a trovare di fronte al tavolo dove si sarebbe discusso il trattato di pace, potessimo dire che noi italiani a un certo momento sapemmo riscattare il nostro prestigio, il nostro onore, fare in pieno il nostro dovere; e che non dovessimo essere trattati come vinti [...]. Questa era la nostra grande illusione; e non v’era differenza allora di ideologie, non v’erano democristiani, comunisti, socialisti o appartenenti ad altri partiti, a Lero: v’erano soltanto italiani, tutti compresi di questa lotta [4].

La narrazione reducistica fu dunque costruita su due assi, entrambi polemici. Il primo, che incorporava la memoria degli ex-coloni civili, vedeva nell’anteguerra un periodo di progressi che i greci, ora animati da “ingiustificata” italofobia, tentavano di disconoscere. Il secondo individuava nella Resistenza in Egeo un momento di eroico riscatto nazionale che non aveva ottenuto la meritata attenzione, anche a causa di posteriori competizioni partitiche. Nei successivi decenni questi aspetti portarono i reduci a considerare il salvataggio della memoria di un esemplare passato che altri intendevano cancellare, quello della parabola italiana nel Dodecaneso, come una missione. Una missione che non poteva non influenzare i rapporti con la società e le istituzioni elleniche nel momento del ritorno nell’arcipelago.

4. La nascita dell’Arde e i primi pellegrinaggi patriottici in Egeo

A partire dagli anni Sessanta, col riassorbimento nella società civile, l’associazionismo tra reduci ed ex-coloni cessò di essere un fenomeno generalizzato. Emersero però delle nuove organizzazioni, concentrate sul tema memorialistico [Ertola 2018, 36-7]. In questo clima nacque l’Arde, sorta nel 1968 quando «un gruppo di ex militari dell’Egeo, residenti a Parma o in provincia» organizzarono una tavolata «per rinsaldare la loro amicizia e rievocare le loro avventure». L’Arde conobbe un rapido sviluppo in area emiliana. Al secondo e al terzo raduno, svoltisi a Reggio Emilia il 13 febbraio e Bologna il 19 marzo 1969, i commensali sarebbero diventati, rispettivamente, 85 e 260, per crescere costantemente nel corso del successivo decennio. L’associazione, laica, apolitica e apartitica, dichiarava come scopi fondamentali «consolidare i vincoli di fratellanza, attuare forme concrete di assistenza ai soci bisognosi, glorificare i Caduti e difendere i valori morali della Nazione» [Berveglieri 1998, 10-4]. Scopi filantropici e assistenziali, dunque, che si collegano a quelli della prima stagione di organizzazioni coloniali, e valori patriottici, condivisi con le associazioni combattentistiche. L’Arde si distingueva dalle prime sul piano operativo, dal momento che finirono per aderire prevalentemente dei borghesi ben inseriti nella società del boom [Berveglieri 1998, 32], e dalle seconde perché oltre a comprendere uomini di tutte le armi e corpi, consentiva il tesseramento ai civili «che in qualunque modo e in qualsiasi momento hanno vissuto ed operato nelle isole» [5]. «L’Egeo» scrivevano i fondatori «è il fulcro emblematico che deve unire tutti [...]; non dovranno essere le azioni singole, […] l’appartenenza a diversi ordini e gradi, la differenza di stirpe o di religione a creare barriere di isolamento e di incomprensione» [Berveglieri 1998, 36]. Superare queste barriere e rinnovare la memoria di quei fatti era uno scopo portato avanti sia attraverso attive collaborazioni con le altre organizzazioni di ex partigiani ed ex deportati per promuovere il ricordo della Resistenza egea presso le istituzioni nazionali, sia con la costante programmazione di pellegrinaggi patriottici nel Dodecaneso. Pellegrinaggi la cui funzione era quella di rievocare un passato ormai ignoto all’opinione pubblica italiana. Nel 1983, i veterani avrebbero commentato così l’assenza di cenni ai fatti avvenuti a Rodi, Kos e Leros nelle trasmissioni televisive che rievocavano l’armistizio:

A tutt’oggi la tragedia […] dell’Egeo risulta così marginale che c’è chi dubita che sia realmente accaduta. Forse alla RAI sanno tutto sulle guerre greco-persiane […] ma con inspiegabile ostinazione ignorano il nostro 8 settembre così temporalmente vicino, così agro, così avventuroso [6].

Ritornare personalmente sui luoghi del conflitto era perciò considerato il modo migliore per attestare che quei fatti erano degni di ricordo e omaggiarne gli “eroi dimenticati”. I primi passi di questa attività furono cauti. Nella seconda metà degli anni Sessanta Rodi era una meta turistica affermata e consigliata anche al viaggiatore italiano. Ciò nondimeno, si legge in un articolo pubblicato su “La Stampa” il 21 febbraio 1965, «non ci sono nostalgie imperialistiche o colonialistiche in questa indicazione, anzi, il viaggio è sconsigliabile a chi non sappia accostarsi alla nuova realtà politica» [7]. Il primo viaggio dell’Arde fu perciò organizzato in maniera informale da una ventina di soci che, nell’estate 1969, si recarono a Rodi per saggiare le reazioni a un ufficiale ritorno degli ex militari occupanti in panni turistici. Il tentativo ebbe un esito positivo. Come sottolinea il presidente Elio Venturini, «temevamo che la popolazione ci fosse ostile, […] per tema che il passato fosse stato offuscato dalla storia attuale [...]. Nulla di tutto ciò». Il sindaco di Rodi comunicò anzi ai reduci «che la popolazione di Rodi e quella di tutta la Grecia vede in voi un popolo parente, un popolo affine. Voglio altresì assicurarvi che tutti voi sarete sempre ben accolti a Rodi, e molto desiderati». Una posizione che fu ribadita pubblicamente dal primo cittadino del capoluogo del Dodecaneso l’anno successivo, quando approdarono le prime comitive ufficiali [Berveglieri 1998, 14-9]. I viaggi in Egeo continuarono, ogni estate, fino agli anni Novanta, finendo per diventare il principale scopo dell’associazione. «Rivisitare in devoto pellegrinaggio le isole di Kos, Lero e Rodi e portare dignitoso omaggio a tutti coloro che nel Dodecaneso sacrificarono la loro giovinezza», dichiareranno i vertici dell’Arde nel 1993, «sono le semplici ragioni che costituiscono la nostra ragione d’essere» [8]. Questo scopo del viaggio non escludeva gli svaghi. Gli itinerari messi a punto dai veterani comprendevano escursioni guidate verso le più note località dell’arcipelago e lasciavano ampio spazio alle gite in spiaggia. A ogni modo, le isole erano considerate una meta di soggiorno non tanto per il loro valore ricreativo quanto per quello simbolico o emotivo. «Andando nel Dodecaneso come noi ci siamo andati», si legge in una testimonianza riportata sul “Notiziario”,

abbiamo dato vita ad una condizione molto particolare, ben diversa non dico da quella di uno svagato turismo parabalneare, ma anche da uno seriamente impegnato sul piano culturale. Lo scopo che l’ARDE si proponeva di portare una commossa espressione di pietà ai caduti e ai dispersi delle isole, ha generato […] una tensione che ha investito tutti […]. Oltre alla Storia con la esse maiuscola, quella testimoniata dai monumenti delle grandi età passate […] ogni giorno avevamo a che fare con piccole storie che si muovevano nella cornice degli eventi tragici successivi al funesto 8 settembre 1943 […]. Le piccole storie individuali, che affiorano […] mentre passi per una piana dove era l’aeroporto militare, [...] o sali su una collina sulla quale erano piazzate le batterie che cacciarono, vanamente, i tedeschi provenienti da “quella strada là” […], e davanti agli occhi ti ripassano i fatti di allora e ancor più gli stessi sentimenti, le stesse ansie, paure, dubbiose speranze. E ti senti unito a quelle persone, che pur conosci così poco, sei uno di loro: e quando è il momento ti senti preso dalla loro stessa commozione [9].

Oltre ai resoconti di viaggio, sul bollettino dell’associazione venivano pubblicate brevi memorie, pagine di diario, poesie, fotografie e altro materiale autobiografico, prodotto sia dai civili che dai militari, che rievocava la vita in Egeo prima della guerra e l’esperienza del conflitto, spesso con toni tra il lirico e il mistico. Tutto materiale che non poteva non riaccendere il ricordo del periodo trascorso nel Dodecaneso, invogliando i soci a tornare per qualche giorno per «rivivere con animo turbato e commosso fatti ed avvenimenti, […] lontani nel tempo ma tacitamente presenti nello spirito» e «ripensare agli ideali della propria giovinezza, in nome dei quali molte giovani esistenze si immolarono» [10].

5. L’emergere del «battlefield tourism» in Egeo

L’attività promozionale non si limitava all’organizzazione dei pellegrinaggi. Sul “Notiziario” apparivano frequentemente delle informazioni su come organizzare autonomamente una visita; dai servizi di trasporto, ristoro e pernottamento, ai contatti delle persone con cui era possibile scambiare dei ricordi. Queste informazioni erano preziose perché mentre Rodi era un’affermata località di villeggiatura, le altre isole rimanevano difficilmente raggiungibili. Inoltre, dopo il golpe dei colonnelli (1967), numerosi oppositori erano stati internati nel Dodecaneso, l’arcipelago più lontano da Atene. A metà degli anni Settanta le isole, che distano poche miglia dalla Turchia, erano poi diventate una zona calda in ragione della crisi cipriota. Tutte condizioni che rendevano difficile recarsi nelle zone militari. Solo nel 1976 un pellegrinaggio commemorativo, organizzato da Edoardo Fino, l’ex cappellano militare dell’Aeronautica di Rodi, fece tappa a Leros [Villa 2016, 287-9]. L’iniziativa fu ripetuta negli anni successivi, ma quella sull’isola era solo una breve sosta, in un itinerario che, in dieci giorni, toccava anche Samos, Kos, Rodi, Creta e Cefalonia [11]. Passarono sette anni prima che l’Arde, dopo un lungo lavoro organizzativo, perché «Lero non è Rodi […] esclusa com’è dalle correnti turistiche di massa che offrono facili combinazioni di viaggio», organizzasse un tour di cinque giorni sull’isola in occasione del quarantennale dell’armistizio [12]. Anche in questo caso, le cronache attestano il valore evocativo dei luoghi della battaglia e un’atmosfera di misticismo che coinvolgeva tutti i partecipanti:

abbiamo visto signore seguire i mariti per impervi sentieri alla ricerca di una piazzola o di una casamatta; altre salire l’erta scala che porta al Castello come per sciogliere un voto; altre ancora raccogliere residuati bellici – schegge e bossoli – come reliquie [13].

L’intera isola veniva descritta coi tratti di un’amica di gioventù ritrovata in un incontro la cui valenza simbolica non riguardava il solo riscatto nazionale, ma anche la possibilità di rilanciare sul piano dell’amicizia le relazioni tra ex militari italiani e dodecanesini in virtù del comune passato. Un passato che emergeva dal paesaggio sia attraverso le rovine delle fortificazioni sia attraverso gli edifici civili costruiti in stile razionalista a Lakki (Portolago). Leros si presentava

fedele ai ricordi con i quali ci ha marchiato l’anima, così fraterna. L’isola ha una sua magia che va al di là dei motivi sentimentali che la legano ai reduci. Essa […] offre spazi di affascinante bellezza ai quali si aggiunge una particolare atmosfera ambientale non contrapposta ma fusa con l’impronta di un passato italiano che non si lascia cancellare neppure in senso fisico. Dall’osmosi di due civiltà non dissimili […] esce la disponibilità ad intendersi tra reduci ed isolani [...]. Lero teatro di una battaglia che coinvolse militari e civili in una medesima esperienza apparentemente senza vie di ritorno, è l’esempio e il simbolo della vittoria dei sentimenti sugli interessi di parte, del desiderio di intese pacifiche sulle velleità conflittuali [14].

Durante il viaggio i reduci italiani resero omaggio ai caduti greci, un gesto particolarmente apprezzato dal capo di Stato maggiore della Marina ellenica, presente alle commemorazioni. La visita fu anche occasione per stringere dei rapporti con l’amministrazione municipale in vista di iniziative comuni [15]. Soprattutto, il viaggio in una località dove la memoria della dominazione italiana è in genere più positiva che in altre aree del Dodecaneso [Doumanis 2003; Marabini 2015] fu un’opportunità per rinnovare i legami affettivi che i contatti quotidiani e le avventure belliche avevano fatto nascere tra i militari e i civili greci. Fra questi ultimi, Christos Delighiorghi, che da ragazzino aveva stretto amicizia con molti marinai e non nascondeva la sua nostalgia di quel periodo, ottenne la tessera dell’Arde e divenne il suo principale referente locale [16]. Delighiorghi era anche un collezionista di cimeli bellici. La sua abitazione finì perciò per essere considerata una sorta di “reliquiario”; tappa obbligata dei veterani e punto di partenza delle escursioni organizzate dal proprietario [17] che veniva descritto come «sempre pronto ad accogliere affettuosamente […] chiunque parli la nostra lingua e intenda rivedere con commozione profonda tanti luoghi consacrati dal valore» [18]. Alla morte di Delighiorghi (1988), la sua collezione passò ad Attanasios Kanaris, un appassionato di storia locale che ricordava con gratitudine i marinai italiani che avevano condiviso con lui il rancio negli anni Quaranta. Kanaris dispose la collezione al piano terra del suo albergo e divenne il nuovo referente per i veterani che tornavano sull’isola [Marabini 2015]. Nel 2005, un vero e proprio museo è stato allestito nel bunker che ha ospitato il comando inglese [Villa 2016], segno che le logiche collezionistiche stimolate dal ritorno dei reduci si sono tradotte in uno sforzo conservativo e intrecciate con quelle di carattere promozionale. In nome di queste logiche, le istituzioni di Leros sono oggi impegnate in diversi progetti di valorizzazione degli edifici civili costruiti dagli italiani [McGuire 2015], delle fortificazioni e dei campi di battaglia della Seconda guerra mondiale, individuati come un tratto distintivo dell’isola, dunque potenziale fattore di attrazione per forme di turismo sostenibile [Koutsi e Stratigea 2019]. La situazione odierna indica un superamento degli imbarazzi che, fino agli anni Novanta, hanno caratterizzato i rapporti tra la società greca e un’organizzazione, l’Arde, il cui principale scopo era ricordare nostalgicamente il periodo trascorso sulle isole e celebrare, in Egeo, l’eroica redenzione del popolo italiano. Un popolo che, nella memoria ellenica della Seconda guerra mondiale, era non solo nemico ma responsabile di gravissimi crimini [Clementi 2013].

6. Lapidi, monumenti e nuove narrazioni pubbliche

Come si è osservato, i rapporti tra l’Arde e le amministrazioni locali non erano tesi. Già nel 1981, il sindaco del capoluogo dodecanesino consegnò una pergamena che qualificava come «amici di Rodi» i reduci bolognesi [19]. Il gesto sembra ben simboleggiare il tramonto dei sentimenti di reciproco sciovinismo che avevano caratterizzato il secondo dopoguerra e la possibilità di costruire il primo nucleo di una memoria condivisa tra istituzioni egee e associazioni italiane. Una memoria che si fondava sul comune riconoscimento dei valori del pacifismo e della lotta contro il nazifascismo, ma non superava lo scoglio di una diversa visione del passato antecedente il 1943. Il problema emerse quando i reduci ottennero le autorizzazioni per collocare delle lapidi negli spazi pubblici. Tale attività iniziò nel 1978, quando l’Arde pose nel cimitero cattolico di Rodi una targa «a imperituro ricordo dei caduti italiani» [Berveglieri 1998, 41]. Un gesto che negli anni seguenti fu ripetuto anche sulle altre isole [20]. Nel 1992 delle imponenti steli commemorative ai caduti italiani furono erette, col contributo economico dei rispettivi Municipi, a Leros e Kos [21]. Inaugurando il monumento di Kos il sindaco Costantino Kaiserli espresse

stima a tutti coloro che [...] combatterono e ancora combattono contro la violenza e l’asservimento dei popoli. È certo che gli ufficiali e sottufficiali dell’Esercito italiano di allora sono stati crudelmente uccisi […] perché hanno avuto il coraggio di dire “non più guerre e no alla violenza e alla crudeltà delle dittature”. Il popolo di Kos che per molti anni ha provato e vissuto la politica coloniale del fascismo, ha saputo comunque giudicare, stimare e onorare i giusti. Il sacrificio dei giovani ufficiali italiani ha creato un solido legame tra il popolo greco – e specialmente quello di Kos – col popolo italiano. Questo piccolo monumento a loro dedicato sia un segno e un esempio di stima secolare per tutti i caduti in guerra e un messaggio per l’amicizia, la pace, e la democrazia indirizzato non solo ai nostri due popoli, ma a tutto il mondo [22].

Tale discorso attribuisce alla Resistenza in Egeo dei valori che la comunità intendeva onorare perché universali e non manca di sottolineare il carattere oppressivo della presenza italiana. Nelle stesse circostanze, il presidente dell’Arde, pur richiamandosi al pacifismo ed evidenziando che gli ufficiali italiani erano morti in nome dei «nascenti ideali di libertà e democrazia», impostò il quadro di riferimento in maniera diversa:

la comunità isolana attraverso i suoi migliori rappresentanti, ha capito ed accolto l’intento morale della nostra richiesta tesa al superamento di vecchie incomprensioni politiche. E memore a sua volta dei felici rapporti sempre intercorsi nell’arco di un fecondo trentennio coi nostri umanissimi fanti, ha deciso di propria spontanea volontà di erigere il monumento testé scoperto [23].

Nessun cenno alla politica coloniale italiana e al suo carico di violenza, i cui strascichi nella memoria locale vengono liquidati come «vecchie incomprensioni». Incomprensioni che, in ogni caso non riguardavano i rapporti umani tra gli isolani e i militari, che in questo modo risultano dissociati da tale politica e perdono i tratti di aggressori ed invasori ben prima della loro partecipazione alla Resistenza. Da questo punto di vista, la vera motivazione che aveva portato i dodecanesini a onorare i caduti era il riconoscimento che il trentennio italiano aveva avuto delle caratteristiche positive, fondate sull’indole bonaria degli occupanti. In sintesi, uno stereotipo sul carattere nazionale, quello del “bravo italiano”, veniva presentato come verità acriticamente condivisa dalla società locale, mentre la descrizione di qualsiasi militare italiano come brutale occupante appariva uno stereotipo del tutto infondato e imposto dall’alto per ragioni politiche. Dall’analisi del “Notiziario” dell’Arde, non è poi emersa alcuna tensione tra la memoria della componente reducistica, che individuava nel Dodecaneso un luogo simbolo della Resistenza italiana contro i tedeschi, e quella dei tesserati civili che ricordavano l’Egeo come luogo di un’esemplare società coloniale. Entrambe le memorie risultavano anzi coniugate come aspetti di un positivo passato nazionale che veniva promosso e difeso in blocco [24].

Già nel 1983, l’Arde aveva inviato una lettera aperta all’Ente del turismo ellenico denunciando le «notizie false e diffamatorie», diffuse da un accompagnatore turistico «sull’amministrazione italiana prima del 1943» [Berveglieri 1998, 51]. Nel successivo decennio, il periodico continuò a puntare il dito contro le guide «che con imperterrita cretineria continuano a definire gli italiani colonialisti, imperialisti e via di questo passo» [Berveglieri 1998, 65]. Come se le isole non fossero state un possedimento dell’impero fascista. Simili discorsi erano poi conditi da affermazioni false come quelle secondo cui «ortodosso o mussulmano nessun cittadino egeo è stato vessato, nessun ebreo deportato o ucciso neppure dopo l’avvento delle stolte leggi raziali» [25], su un territorio dove la repressione dell’irredentismo ellenico iniziò negli anni Dieci e fu costante. Nella seconda metà degli anni Trenta furono messe in campo delle politiche di italianizzazione forzata, le leggi antisemite del 1938 furono applicate con zelo e nel 1944 l’intera popolazione ebraica inviata nei campi di sterminio con la collaborazione dei funzionari repubblichini [Clementi e Toliou 2015].

Il fastidio di parte dei locali per il revisionismo dei reduci, il loro atteggiamento di sfida verso la narrazione patriottico-resistenziale ellenica, a volte identificato come forma di revanscismo [26], e per il ritorno di simboli associabili ai vecchi occupanti negli spazi pubblici venne chiaramente a galla il 28 febbraio 1993. All’alba, una carica di dinamite fece esplodere il monumento ai caduti italiani di Leros [27]. L’atto fu immediatamente stigmatizzato dalle autorità e il monumento ricostruito a spese del Municipio. A ogni modo, l’attentato spinse l’Arde a dichiarare esplicitamente ai media greci che dietro il sentimento di pietas per i morti italiani non si nascondevano nostalgie coloniali [28]. Commentando la decisione di procedere al restauro della lapide, i vertici dell’organizzazione avrebbero poi espresso gratitudine

alla municipalità e alla gente di Leros; non tanto perché ci si senta creditori di una riparazione e meno che meno per affermare, a cinquant’anni dalla riconosciuta sovranità greca sulle isole, inesistenti diritti morali; ma perché i ragazzi di ogni parte del mondo morti a Lero meritano ricordo e rispetto qualunque sia la loro lingua e colore della loro pelle. Né più né meno dei giovani soldati greci caduti in Italia [29].

Proprio come ringraziamento per le onoranze concesse agli italiani, una delegazione dell’Arde si recò al cimitero ellenico di Riccione per rendere omaggio ai militari greci caduti durante lo sfondamento della Linea Gotica [Berveglieri 1998]. Anche in ragione del fatto che fra questi caduti sono presenti numerosi dodecanesini [Espinoza 2018], il gesto distensivo valse a placare le polemiche sull’opportunità di erigere monumenti agli italiani in Egeo [30]. Non solo, da quel momento le iniziative dell’Arde ricevettero una patina di ufficialità, grazie alla presenza di alte personalità politiche, diplomatiche e militari, sia greche che italiane.

7. Narrazioni conciliative e persistenza degli stereotipi postbellici

Dalla seconda metà degli anni Novanta i reduci che si recavano in Egeo, tutti ormai ultrasettantenni, non furono più guardati con sospetto, ma come testimoni di un lontano e specifico passato locale. Nel 1995, conferendo la cittadinanza onoraria a un ex combattente, che aveva pubblicato un libro in cui si esprimeva gratitudine per i civili che lo avevano nascosto dopo l’8 settembre, il sindaco di Vathi (Rodi) sottolineò che tale atto

unisce due epoche: la vecchia (guerra, odio, fame) e l’attuale, ormai pacifica almeno per quanto riguarda la Grecia e l’Italia. […]. Questa nomina deve ricordare a tutti che in questo paese gli uomini […] sanno riconoscere i valori umani, e premiare le persone greche o straniere che hanno della sensibilità e degli ideali, affinché questi diventino un modello per un mondo di pace e di fratellanza lontano dagli odi e dai pregiudizi [31].

Nello stesso periodo, in mancanza di un ricambio generazionale degli associati, le attività dell’Arde si ridussero fino allo scioglimento, avvenuto nel 2000. L’assenza di giovani, fu vissuta come un fallimento dagli ultimi direttivi dell’associazione, che si lamentavano dell’incapacità dei propri “nipoti” di recepire i valori nazional-patriottici e, tanto meno, di commuoversi pensando alle lontane vicende dell’Egeo italiano [Berveglieri 1998]. Vicende in cui la dimensione dell’oppressione sui dodecanesini non fu comunque mai riconosciuta dall’Arde. Sull’ultimo numero del “Notiziario”, traendo un bilancio della trentennale esperienza associativa, la redazione sottolineava anzi che i veterani, in nome dell’amicizia, avevano imparato a scusare «le guide dei pullman» che «ripetono ancora le assurdità sugli “occupatori italiani” imparate nelle scuole del dopoguerra» [32]. Peraltro, questa narrazione riaffiora nelle cronache di viaggio di altre organizzazioni che, più recentemente, si sono occupate di proporre delle forme di pellegrinaggio patriottico in Egeo. Nel resoconto della crociera organizzata a questo scopo dall’Associazione nazionale marinai d’Italia nel 2019 si legge che a Rodi

abbiamo davvero provato l’orgoglio di essere italiani qui ancora e sinceramente rispettati e quasi rimpianti per quanto fatto non solo in campo architettonico ed urbanistico (tutti i principali edifici pubblici risalgono infatti al periodo della nostra presenza sull’isola) ma per il modello di una pacifica vita sociale multi etnica e multi religiosa [33].

In Italia, a guadagnare dalla ridefinizione delle memorie attraverso il turismo di guerra in Egeo è stata dunque l’immagine di un colonialismo positivo. Un colonialismo le cui realizzazioni vengono evocate senza fare alcun riferimento al loro contesto storico: né al fatto che la ricostruzione del centro urbano era concepita come parte di una campagna di de-ellenizzazione dell’identità insulare e promozione dell’immagine del fascismo [McGuire 2018]; né alle vittime della repressione politica; né alle politiche di italianizzazione forzata; né alla sorte degli ebrei dodecanesini.

La persistenza di questa narrazione è sicuramente collegata ai ritardi della ricerca italiana sul tema del colonialismo, un ritardo particolarmente accentuato per quanto riguarda la storia delle aree extra-africane, ma anche all’atteggiamento delle istituzioni nazionali che hanno per lungo tempo ostacolato la diffusione di riflessioni sulle violenze commesse nell’oltremare oltre la cerchia degli specialisti [Focardi 2013]. Ciò non di meno, nel corso degli ultimi decenni si è fatta strada la consapevolezza della natura moralmente ingombrante del nostro passato imperiale, almeno tra il pubblico più attento alla storia del XX secolo.

La missione di attirare questo genere di visitatori, attraverso l’organizzazione di esposizioni, conferenze ed escursioni di tema “italo-dodecanesino”, viene oggi portata avanti da organizzazioni come la Rhodes International Culture & Heritage Society o l’Associazione italiana amici di Leros, un sodalizio nato nel 2009 che può vantare un’ottima sinergia tanto con le istituzioni italiane quanto con quelle greche. L’attività di queste organizzazioni dimostra che produrre narrazioni non scioviniste sulla presenza italiana è un esercizio guardato con grande interesse dalla società egea, che è ormai disposta, non certo a “rivalutare” le dominazioni straniere, ma a considerare le tracce del colonialismo un aspetto rilevante del patrimonio culturale delle isole. Un patrimonio la cui natura cosmopolita viene evidenziata anche per sottolineare l’apertura internazionale di un territorio a forte vocazione turistica [Avdikos 2011].

8. Conclusioni

Le vicende dei pellegrinaggi patriottici organizzati dall’Arde in Egeo sollevano diversi interrogativi sugli intrecci tra turismo di guerra e memoria pubblica, che potrebbero essere estesi, in chiave comparativa, alle attività di altre organizzazioni che fuori dal contesto regionale si sono occupate di promuovere il ricordo del Dodecaneso e, più in generale, della vita nei territori appartenuti all’impero fascista. Queste vicende non hanno suscitato un particolare interesse storiografico, se non per sottolineare i meriti dei veterani nell’aver dato continuità al ricordo della Resistenza nel Dodecaneso in Italia [Villa, 2016, 285-94]. Tale scopo era alla base delle attività turistiche dell’associazione emiliana: il recarsi sulle isole veniva vissuto anche come mezzo per reclamare maggiore attenzione da parte delle istituzioni. Un obiettivo che, in Italia, fu effettivamente raggiunto nel corso degli anni Novanta, sulla spinta di un dibattito che partendo da Cefalonia [Insolvibile e De Paolis 2017] finì per coinvolgere anche l’Egeo. Il primo interrogativo che emerge analizzando i resoconti di viaggio riguarda la credibilità della memoria resistenziale elaborata dai reduci fuori dall’ambito nazionale, dal momento che i pellegrinaggi sulle isole evidenziarono che la società locale non condivideva il significato attribuito dall’Arde agli eventi rievocati. In questo senso, il principale contributo del turismo reducistico sembrerebbe essere stato quello di evidenziare, involontariamente, i limiti degli approcci nazionalisti nel chiedere una riformulazione delle memorie pubbliche all’estero.

Il secondo interrogativo concerne la capacità dell’Arde di sollecitare un ruolo delle istituzioni in tale processo. Dal momento che, dagli anni Novanta, la presenza di personalità italiane ed elleniche alle commemorazioni ha posto al centro dei discorsi pubblici sulla Resistenza nel Dodecaneso i buoni rapporti politici tra i due paesi e il comune riconoscimento per i valori dell’antifascismo, la risposta parrebbe affermativa. Così come avvenuto in altri territori interessati dal «battlefield tourism» [Yeneroglu Kutbay e Aykac 2016], sul lungo periodo, i viaggi dei reduci sembrano aver stimolato una riconciliazione dei rapporti tra identità e memorie pubbliche conflittuali. Tutto ciò ha prodotto nuovi modi di presentare gli eventi del 1943 attraverso un percorso che ha operato una selezione sul “cosa” ricordare e “come” farlo a partire dalle narrazioni formulate nel dopoguerra. Questo, però, senza verificarne la fondatezza né chiamare in causa gli aspetti che erano già stati rimossi dalle rispettive memorie pubbliche, a partire dalle violenze subite dai dodecanesini in quella italiana. Pertanto, la conciliazione è stata solo superficiale e non ha mai toccato lo stereotipo del “bravo italiano” o il mito secondo cui i connazionali si sono generosamente prodigati per valorizzare i territori d’oltremare. Paradossalmente, pellegrinaggi a rievocare la memoria della Resistenza italiana nel Dodecaneso sono così divenuti un’occasione per porre in buona luce diversi aspetti dell’amministrazione fascista, quelli legati alla “missione civilizzatrice”, e negare, più o meno implicitamente, la fondatezza della memoria greca. Ciò addirittura abbandonando la cautela che caratterizzava i primi viaggi dell’Arde.

L’ultimo interrogativo proposto riguarda perciò il ruolo della storiografia – che nel corso delle ultime due decadi ha demolito le mitologie sul carattere nazionale italiano nei rapporti con le popolazioni balcaniche [Fonzi 2017] e africane [Ertola 2017] – nel costruire una narrazione pubblica italo-greca sulla presenza italiana in Egeo condivisibile, perché scientificamente fondata, e in grado di incentivare un serio turismo di memoria. Come si è osservato, benché la questione del ruolo delle popolazioni non ortodosse nella storia locale continui a causare degli attriti [Sintès 2017; Rappas 2018], nel Dodecaneso lo sviluppo di questo tipo di viaggi è oggi considerato positivamente; quantomeno come opportunità per ampliare e diversificare l’offerta turistica. Per quanto riguarda il rapporto con gli italiani, il superamento delle tensioni legate alla forma dei pellegrinaggi patriottici pare facilitato dal fatto che, con la scomparsa degli ultimi testimoni della Seconda guerra mondiale, l’esigenza di bilanciare le sensibilità della società locale e i personali ricordi dei visitatori, una questione che fu elusa più che risolta nei rapporti coi reduci, è scemata. Si è però fatta più forte quella di armonizzare le narrazioni pubbliche che sono il principale punto di riferimento delle nuove generazioni. Fino a che punto la storiografia possa, da sola, incidere in questo processo è una questione che rimane aperta, dal momento che le acquisizioni scientifiche sulle violenze perpetrate nel Dodecaneso non paiono essere state incorporate in maniera incisiva nella memoria pubblica italiana. Resta comunque il fatto che, nell’ottavo decennio dalla cessione dell’arcipelago alla Grecia, una maggiore diffusione della conoscenza delle ombre dell’amministrazione italiana in quel territorio, che rappresenta comunque un interessante caso di studio per esaminare numerosi nodi della storia del Novecento [Febbraro e Ziruolo 2019], potrebbe giovare anche alla nostra coscienza civica.


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Note

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2. Di Cellere a Ministero Affari esteri, 21 novembre 1947, in ASDMAE, Affari politici 1946-50, Dodecaneso, b. 3, f. Stampa e giornalisti.

3. Leonetto Amadei, Interrogazione parlamentare, 29 novembre 1948: <http://www.camera.it/_dati/leg01/lavori/stenografici/sed0142/sed0142.pdf> consultato il 20 aprile 2019.

4. Ibidem.

5. Notizie dalla sede nazionale di Parma, “Notiziario dell’Associazione Reduci dell’Egeo”, 2, 1981.

6. L’anniversario mancato, “Notiziario dell’Associazione Reduci dell’Egeo”, 18, 1983.

7. Un viaggio a Rodi e in Libia, “La Stampa”, 21 febbraio 1965.

8. Dal discorso del Presidente E. Benzi, “Notiziario dell’Associazione Reduci dell’Egeo”, 71, 1993.

9. A. Devizzi, Riflessioni su un viaggio, “Notiziario dell’Associazione Reduci dell’Egeo”, 73, 1993.

10. G. Patanè, Taccuino di viaggio, ottobre ’93, “Notiziario dell’Associazione Reduci dell’Egeo”, 73, 1993.

11. Una crociera in ricordo dei caduti in Grecia, “La Stampa”, 21 giugno 1978.

12. Viaggio a Lero, “Notiziario dell’Associazione Reduci dell’Egeo”, 13, 1983.

13. C. Berveglieri, Lero, “Notiziario dell’Associazione Reduci dell’Egeo”, 18, 1983.

14. Ibidem.

15. Ibidem.

16. E. Fagiolini, Lettera aperta a una FIAT 1100 del 1936 in circolazione a Lero, “Notiziario dell’Associazione Reduci dell’Egeo”, 19, 1984.

17. A. Martelli, Per Christos il tempo si è fermato, “Notiziario dell’Associazione Reduci dell’Egeo”, 48, 1988.

18. E. Fagiolini, Lettera aperta a una FIAT 1100, cit.

19. E. Benzi, Ho ritrovato l’isola dei miei vent’anni, “Notiziario dell’Associazione Reduci dell’Egeo”, 4, 1981.

20. C. Berveglieri, Lero, cit.; E. Benzi, Isola di Kos, settembre 1987, “Notiziario dell’Associazione Reduci dell’Egeo”, 41, 1987.

21. È tempo di monumenti, “Notiziario dell’Associazione Reduci dell’Egeo”, 67, 1992; L. Gadda, Cronaca del viaggio a Coo, “Notiziario dell’Associazione Reduci dell’Egeo”, 68, 1992; inoltre Berveglieri 1998, 61.

22. L. Gadda, Cronaca del viaggio a Coo, cit.

23. Ibidem.

24. L. Gadda, Ciao A.R.D.E., “Notiziario dell’Associazione Reduci dell’Egeo”, 107, 2000.

25. C. Berveglieri, Il dito in una vecchia piaga, “Notiziario dell’Associazione Reduci dell’Egeo”, 78, 1994.

26. C. Berveglieri, Un po’ per celia un po’ per non morire (dal ridere), “Notiziario dell’Associazione Reduci dell’Egeo”, 60, 1991.

27. A Lero accadde una notte, “Notiziario dell’Associazione Reduci dell’Egeo”, 70, 1993.

28. G. Patanè, Taccuino di viaggio, cit.

29. A Lero accadde una notte, cit.

30. Una lettera venuta da Kos, “Notiziario dell’Associazione Reduci dell’Egeo”, 71, 1993.

31. Rodi ha un cittadino in più, “Notiziario dell’Associazione Reduci dell’Egeo”, 83, 1995.

32. [C. Berveglieri?], La sera del 16 dicembre, “Notiziario dell’Associazione Reduci dell’Egeo”, 107, 2000.

33. Diario della crociera 2019 dei Marinai d’Italia, URL: https://www.marinaiditalia.com/?page_id=17254.