Introduzione

La storiografia sul fascismo conta ormai una vastissima produzione che ha permesso un enorme avanzamento delle conoscenze ed un notevole ampliamento delle sue categorie interpretative.

Molto più problematico appare invece il quadro della memoria pubblica. Questa non solo rimane un punto controverso ma è del tutto staccata dai risultati acquisiti dalla ricerca storica. Emilio Gentile ha parlato di una «“defascistizzazione” retroattiva del fascismo»: «negando che vi sia stata una ideologia fascista, una cultura fascista, una classe dirigente fascista, una adesione di massa al fascismo, un totalitarismo fascista e persino un regime fascista», ha scritto lo studioso, si è aperta la strada ad «una rappresentazione alquanto indulgente, se non propria benevola, della storia dell’esperienza fascista, come una vicenda più comica che tragica, una sorta di istrionica farsa di simulazione collettiva, recitata per vent’anni dagli italiani, sotto una dittatura personale, blandamente autoritaria, che tutto sommato non avrebbe fatto gran danno all’Italia, fino a quando non fu traviata dalla Germania nazista, che le inoculò il razzismo e l’antisemitismo, e la condusse sulla via della perdizione» [Gentile 2002, VII]. Se forse all’inizio su tale rilettura accomodante poteva pesare la difficoltà della storiografia a “storicizzare” il regime, nonché la necessità del sistema politico repubblicano di costruire una memoria pubblica autoassolutoria per la maggioranza degli italiani coinvolti nell’esperienza fascista, successivamente è stata soprattutto la rappresentazione veicolata dai mezzi di comunicazione a consolidare una immagine “defascistizzata” del regime.

Il problema è dunque anche riflettere sul modo in cui è stato raccontato dai mezzi di comunicazione il fascismo e su quali sono stati gli esiti di tale racconto. Dei principali media solo il cinema ha goduto di recente, dopo i pioneristici lavori degli anni Ottanta [Brunetta 1985; De Luna 1993], di un rinnovato interesse storiografico rispetto alle modalità in cui ha raccontato il regime dopo la sua caduta [Zinni 2010]. Poco indagato resta ancora l’impatto delle trasmissioni televisive rispetto alla memoria del fascismo. Sebbene siano subito stati segnalati i rischi che lo strumento televisivo poneva [Tranfaglia 1983, 135-148], non si è andati al di là della riflessione di Guido Crainz sui programmi televisivi dedicati dalla Rai al fascismo e alla Resistenza del 2000 [Crainz 2000]. Questo nonostante il proliferare di canali tematici dedicati alla Storia e il maggior protagonismo che gli studiosi hanno conquistato di recente nella costruzione dei programmi anche della Tv generalista. Il rapporto tra stampa e racconto del fascismo non fa eccezione. Dopo le prime ricostruzioni di Paolo Murialdi sulla riorganizzazione della stampa durante il regime [Murialdi 1980; Murialdi 1986], di recente sono apparse interessanti analisi dei percorsi di adesione dei giornalisti al regime e sulla loro rapida autoassoluzione dopo la sconfitta del fascismo [Allotti 2012]. Manca però ancora una ricerca generale, anche per l’ovvia difficoltà materiale della sua realizzazione, sul racconto del fascismo nella carta stampata. Sono apparse riflessioni su testate come “la Stampa” e “l’Unità” tra gli anni Sessanta e Settanta [Tarquini 2016, 89-112], mentre risale al 2008 l’importante ricerca di Cristina Baldassini sulla memoria del fascismo proposta all’Italia moderata dai grandi rotocalchi come “Gente” ed “Oggi” e giornali come “Il Borghese” e “Il Tempo” [Baldassini 2008].

Senza pretesa di esaustività, questo intervento proverà ad individuare alcune chiavi di lettura del fascismo da parte della stampa nelle diverse fasi dell’Italia repubblicana. Si anticipa il convincimento che anche giornali e periodici abbiano contribuito in modo convergente, sia pure con motivazioni diverse, a quel processo se non di aperta banalizzazione, certo di relativizzazione della dittatura fascista sostenendo l’impermeabilità della società italiana alla sua azione, presupposto della “memoria debole” del fascismo. Su questa base il racconto del fascismo dei giornali ha incrociato la rappresentazione caricaturale che del regime ha fatto in genere il cinema italiano, secondo gli studi più recenti già con la fine del neo-realismo [Zinni 2010], ripresa poi dalle trasmissioni televisive degli anni Ottanta, riproponendo l’immagine di una dittatura bonaria, conclusasi con una guerra mondiale solo per una serie di contingenze fortuite.

Il fascismo e la società italiana: il mito di una distanza incolmabile (1945-1960)

L’idea dell’estraneità del popolo italiano al fascismo fu da subito uno dei più ricorrenti leitmotiv sviluppati dalla grande stampa nazionale all’indomani della fine della guerra.

Questo approccio si sviluppò subito dopo la caduta del regime fascista e costituì uno dei primi modi di inquadrare la relazione tra fascismo e società italiana. Su “l’Unità” clandestina del 27 luglio 1943, immediatamente dopo la caduta di Mussolini, il vero protagonista della cacciata del duce era individuato in quel «popolo italiano» che aveva reso possibile la fine della dittatura «colla sua resistenza alla politica di guerra e di asservimento, colle sue manifestazioni di forza, cogli scioperi della sua meravigliosa classe operaia, coll’odio pronto ad esplodere dei milioni di cittadini colpiti nei loro sentimenti, nei loro ideali dalla nefasta e miserabile guida di un governo di banditi» [1]. Il fascismo era quindi considerato estraneo all’autentico sentimento popolare, e da sempre, non soltanto nei giorni della sconfitta militare. I fascisti erano perciò presentati come una forza minoritaria che si era imposta, con la complicità della monarchia e della sola grande borghesia, usando la forza contro la stragrande maggioranza della popolazione. La stampa comunista insistendo su questa interpretazione finiva per costruire una immagine della relazione tra dittatura delle camice nere e società italiana «deresponsabilizzante ed auto-assolutoria incentrata sull’idea del predominio violento di una banda di briganti che aveva tenuto prigioniero con la violenza e la repressione poliziesca il popolo italiano» [La Rovere 2008, 70].

In verità questa non era la sola narrazione presente nella stampa comunista. Non mancava infatti, specie in Togliatti, l’idea di un radicamento profondo del fascismo nella società italiana, tema su cui il leader comunista aveva molto ragionato già negli anni Trenta. Questa immagine non divenne però predominante, prevalendo l’idea che per debellare l’eredità del fascismo e recuperare ai grandi partiti antifascisti le masse politicizzate della dittatura si dovesse assolverle dalle tragedie a cui il fascismo aveva condotto il paese. Nella stessa direzione, per motivi diversi, si muoveva anche la stampa cattolica. Come ricordato da Marta Margotti, all’indomani della Liberazione la rivista dei gesuiti “Civiltà cattolica” già proponeva «una pacificazione stretta della memoria», ripercorrendo il rapporto tra Chiesa e fascismo a partire dal Concordato, dagli scontri intorno all’Azione Cattolica, dall’aiuto del Papa e dei cattolici a chi si trovava in difficoltà durante la guerra, come gli ebrei negli anni della guerra [Margotti 2007, 162]. Si rivendicava quindi alla Chiesa il merito di aver difeso i diritti inalienabili stabiliti da Dio, non rinunciando a permeare la società italiana del messaggio cristiano, anche grazie ai compromessi con il fascismo. Quest’ultimo veniva «relegato sullo sfondo, quasi quale elemento accidentale delle vicende passate» e l’antifascismo a sua volta «si esauriva nelle virtù eroiche dei singoli cattolici». L’obiettivo principale di una simile impostazione era la «riaffermazione della necessità di ristabilire, il più rapidamente possibile, la pace sociale che era considerata continuamente compromessa dalle aspre contrapposizioni politiche ereditate dalla lotta antifascista». Per perseguire tale scopo era indispensabile il prevalere della «pietà per i morti di tutte le parti in lotta e il perdono di coloro che avevano militato dalla parte sbagliata» [Margotti 2007, 169-170].

Tale impostazione, anche se non priva di accenni alla volontà “totalitaria” del fascismo (utili del resto a far risaltare l’azione di contenimento del regime svolta dalla Chiesa), non spingeva a tematizzare la relazione del fascismo con la società italiana. Anche nelle riflessioni più critiche sulle responsabilità cattoliche verso il fascismo, come la rivista “Adesso” di don Primo Mazzolari, prevaleva l’idea di salvare quello che di buono c’era stato anche nel regime e quanti vi avevano partecipato in buona fede [Margotti 2007, 166]. La stampa legata alla Dc si mosse sulla stessa via, insistendo sulla pacificazione e sulla riconciliazione. Guido Gonella su “Il Popolo”, già il 30 aprile del 1945, invitava tutti gli italiani a «liberarsi al più presto dallo stesso ricordo di un infausto passato», e «a dimenticare al più presto» [2]. Parallelamente, come è stato scritto, ci fu «il silenzio pressoché totale del mondo democristiano nei confronti del binomio fascismo/antifascismo», dimostrando non solo «un atteggiamento difensivo ed ambiguo che ne caratterizzò i rari interventi», ma anche sostanzialmente «il rifiuto […] ad accettare quel binomio come significativo, come necessario da approfondire» [Flores 1986, 36].

In questo quadro, pochi furono gli interventi specifici sulla stampa cattolica all’indomani della guerra tanto sul fascismo che sulla Resistenza, letti comunque in chiave etico-spirituale, prospettiva che avrebbe caratterizzato il tentativo, a metà degli anni Cinquanta, di contendere il campo resistenziale alle sinistre social-comuniste [Tedesco 2007]. Il fascismo e il nazismo furono visti quindi come la negazione del cristianesimo ed in generale del sentimento religioso e presentati sotto questa luce sulla stampa legata alla Dc. Guido Gonella il 29 aprile del 1945 considerava la guerra fascista come la «rivolta dei bassi istinti della nostra antica razza europea contro gli ideali cristiani di libertà e di dignità umana» [3]. Le vittime della guerra nazifascista venivano equiparate ai primi martiri cristiani mentre il fascismo diventa un fenomeno per molti versi metastorico prodotto dell’«irrazionalismo di filosofie barbare» sfociate nella ferocia della guerra mondiale [4].

Se questa impostazione coglieva l’aspetto di irriducibile antitesi tra cristianesimo e fascismo, la collocazione di questo ultimo su un piano metapolitico, segno estremo del peccato, nel senso dell’allontanamento dell’uomo da Dio, come facevano alcuni ambienti dentro la Dc, certo non aiutava una riflessione specifica sull’origine secolare del regime e un esame delle sue caratteristiche storicamente determinante. L’impostazione democristiana caratterizzata insieme dal richiamo alla riconciliazione e al perdono, da una lettura esclusivamente etico-religiosa del fascismo, nonché dal tentativo di recuperare politicamente ceti e persone legate alla dittatura, finì quindi per essere un ulteriore tassello di una lettura minimizzante del regime mussoliniano.

A questo approccio non si sottrasse neppure, sia pure in modo diverso, il giornale che più di ogni altro poteva considerarsi, in qualche modo, l’erede della tradizione azionista, vale a dire “la Stampa” di Torino. Nel 1953, in un articolo rievocativo del 25 luglio, Luigi Salvatorelli insisteva sull’assenza di difesa da parte fascista come conferma del carattere vuoto e retorico dell’adesione al regime:

L’aspetto più impressionante del venticinque luglio non è quello delle folle scese, all’annuncio della radio, in piazza ad acclamare la caduta del duce e del fascismo. E’ piuttosto quello dell’assenza di qualsiasi segno di opposizione, o almeno di rammarico, o anche più semplicemente di dubbio, di perplessità, di sorpresa, in tutto il Paese; un Regime per cui, dopo venti anni di potere e di plauso, nessuno pensa ad affrontare, non diciamo la morte, non diciamo le bastonate, ma neppure i fischi; e più ancora, nessuno si meraviglia della sua liquidazione improvvisa, in un breve colloquio fra il sovrano e il capo del Governo: veramente, un tale regime era maturo per la sua fine, anzi era già “passato” [5].

L’anno prima, per il trentennale della “Marcia su Roma”, lo studioso aveva proposto una rappresentazione del regime fascista come edificio meramente propagandistico e privo di reale forza:

Nell’insieme, tutta la struttura dello Stato nazionale risultò svuotata e falsata: un capo dello Stato ridotto a timbro per i decreti del duce; un parlamento a sua volta semplice registratore degli ordini mussoliniani […]; una magistratura impotente o asservita; una polizia strumento della dittatura; sindacati privi di qualsiasi valore rappresentativo dei lavoratori; corporazioni inesistenti ancora molti anni dopo l’annuncio dello Stato corporativo, e una volta create sulla carta, semplici occasioni di “grandi rapporti” mussoliniani, nonché paraventi agli intrighi degli interessi particolari; infine, l’esercito degli “otto milioni di baionette”, finito nelle criminali condizioni d’impreparazione in cui Mussolini osò gettare il Paese allo sbaraglio mortale. Con la corrosione e lo svuotamento dello Stato andarono di pari passo la diseducazione politica, la corruzione morale, l’abbassamento del tono sociale e del carattere individuale. Quando per il fatto dell’Asse e del patto di Acciaio – fatti personalissimi del duce – l’Italia si trovò di fronte alla guerra, non c’era una ruota del congegno statale che fosse in ordine, non un elemento della vita nazionale rimasto sano e attivo. Capo di un partito in condizioni di spappolamento, Mussolini era personalmente un malato, fisico e morale, che cambiava opinione più volte al giorno, alternava periodi di passività con scatti inconsulti; e alla coscienza, in qualche momento pungente, delle condizioni di bassezza in cui Hitler aveva posto lui e il Paese, associava una rassegnazione abulica, unicamente speranzosa in non si sa quale rivincita futura [6].

Il ritratto che si faceva del fascismo era quello di un regime incapace di innervare le strutturali statali, che aveva anzi svuotato dall’interno, con un partito incapace di essere una forza politica reale, sempre più ridotto alla sola persona fisica di Mussolini, irretito, con il deperimento della sua salute, dalla fascinazione personale per Hitler e il nazismo fino a condurre il paese allo sbaraglio.

Anche l’ascesa al potere dei fascisti veniva imputata agli errori degli avversari, tacendo della forza autonoma del movimento. La stampa cattolica insistette molto sulla natura “suppletiva” delle camice nere, giunte al potere per l’incapacità del mondo liberale di rappresentare i valori morali e materiali delle grandi masse popolari e di fronteggiare la situazione di caos in cui la sinistra massimalista avevano gettato il paese [Margotti 2007, 164-165]. Sul versante liberale, recensendo la Storia d’Italia nel periodo fascista di Salvatorelli e Mira, Paolo Serini segnalava come spiegazione del successo fascista, sia il «patriottismo apolitico di vasti strati dell’opinione, specie piccolo-borghese, offeso e ferito dal processo massimalistico all’intervento e alla guerra ed esasperato dal mito nazionalistico della “vittoria mutilata”» che soprattutto «la “paura del bolscevismo”: che gli procurò, soprattutto dopo il “rilancio” agrario e squadristico dell’autunno 1920 […], l’appoggio dei ceti plutocratici e le crescenti simpatie della gente “d’ordine”» [7]. Anche la sua analisi tuttavia insisteva sulla responsabilità dei liberali e della monarchia, convinti che il fascismo fosse «un fenomeno di carattere transitorio, suscettibile di venir incanalato nell’alveo tradizionale (e, per intanto, efficacemente utilizzato in funzione antisocialista)», sfuggendogli invece «il carattere eversivo del fenomeno e la sua intrinseca natura illiberale». Si era giunti così – «attraverso un crescendo continuo, da una parte, di violenze e di arbitrii, dall’altra, di capitolazioni e di complicità da parte delle pubbliche autorità e della vecchia classe dirigente» – alla dittatura «che nessuno dei suoi “fiancheggiatori” aveva voluto, ma cui tutti concorsero in varie guise e alla quale la Corona dette la sua decisiva sanzione» [8]. L’accusa alla classe dirigente liberale tornava anche nella stampa di sinistra. Lo storico comunista Paolo Alatri, in un saggio apparso nei numeri 2, 3 e 4 della rivista “Belfagor” nel 1950, e poi ripubblicato in volume insieme ad altri testi, scriveva che:

Fino al 1920 il fascismo non aveva contato nulla: da allora fino al principio del ‘21 divenne una milizia armata della borghesia reazionaria, una specie di milizia sussidiaria di cui il governo conservatore si serviva nella lotta contro il socialismo e laddove le tradizioni costituzionali dello Stato liberale non consentivano di giungere, ben poteva pervenire questa milizia, che almeno formalmente, era una milizia privata. […] Da questo momento la corrente di simpatia che, per inveterate abitudini retrive, le caste statali provano per il fascismo, riceve l’incoraggiamento e il suggello governativo, impulso potente e quant’altri mai in un paese come l’Italia che è stato culla del trasformismo [9].

Se per Serini i liberali non avevano compreso la reale natura del fascismo, per Alatri il movimento era emanazione diretta di un liberalismo italiano ormai tralignato, e se pure non gli sfuggiva la non diretta sovrapponibilità tra il fascismo e la classe dirigente liberale né il suo radicamento nei ceti medi, questi fenomeni venivano analizzati all’interno della saldatura di “classe” che realizzavano contro il movimento operaio [Alatri 1971 (1956), 107-108].

Il risultato finale era la tendenza a leggere il fascismo come espressione del dominio della grande borghesia e quindi un come fenomeno politico non autonomo. Questa impostazione era largamente dominante a sinistra. Ne aveva fornito plastica rappresentazione Elio Vittorini che in un articolo su “l’Unità” del 1946 aveva scritto che «la sostanza del fascismo è il capitalismo giunto al suo stadio massimo di sviluppo industriale e finanziario, che attacca per difendersi e conservarsi», vedendo «un pericolo mortale nello sviluppo contemporaneo raggiunto dal proletariato». Anche Riccardo Lombardi su “l’Avanti!” nelle stesso anno definiva il fascismo «lo strumento più “economico” per mantenere il loro dominio», da parte della forze sociali più oppressive e retrive [10].

Il racconto della stampa, dai quotidiani alle riviste più impegnate, collocava quindi il fascismo nel cono d’ombra dell’interpretazione crociana, ora insistendo sullo smarrimento morale dopo la Grande Guerra, ora accettando l’idea della “parentesi”, giustificando sempre l’accomodamento con il regime (i cattolici) o in modo speculare sottolineando l’estraneità al regime delle masse popolari (le sinistre).

Tra nostalgia e cancellazione: il fascismo raccontato dalla fine degli anni Cinquanta a metà degli anni Settanta

Accanto ad una rappresentazione tesa a segnalare il distacco dalla popolazione italiana dal regime si era però presto formata una altra di tenore diverso.

Già dai primi anni Cinquanta si diffuse una vasta pubblicistica, fatta di riviste e settimanali che, pur senza essere riconducibile all’area neofascista, si connetteva ad un certo sentimento di nostalgia del regime, senza però rivendicarne l’eredità politica. Come ha bene argomentato Cristina Baldassini, settimanali come “Gente” ed “Oggi”, che vendevano centinaia di migliaia di copie, spinsero verso una forte “umanizzazione” del duce, recuperandone il passato socialista e le origini popolari accanto ovviamente al ruolo di leader governativo, ricostruendoli attraverso il filtro del ricordo di amici, familiari, amanti e così via [Baldassini 2008, 4-7]. Si realizzava per questa via una profonda “destoricizzazione” della figura di Mussolini e del suo rapporto con il fascismo, ridotto spesso ad un generico “mussolinismo”. Mussolini veniva inoltre presentato come il campione delle virtù e dei vizi nazionali, e sarebbe stato proprio questa sua arci-italianità a spingere la popolazione ad immedesimarsi con lui, tolti pochi facinorosi sovversivi. Sarebbe stata proprio tale identificazione tra maggioranza della popolazione e duce a fare del fascismo un regime blandamente autoritario, profondamente diverso dal nazismo e dal comunismo sovietico, poco incline a prendersi sul serio, con gli stessi gerarchi disposti a trasgredirne le direttive. Queste ultime erano presentate come formali, non in grado di influenzare la popolazione italiana. Le persecuzioni degli oppositori sarebbero state inoltre minime, i provvedimenti più esecrabili come le leggi razziali disattesi, e lo stesso regime non avrebbe avuto nessuna reale intenzione di portare all’estremo i propri proclami marziali [Baldassini 2008, 13-51].

Si trattava di una impostazione che riprendeva i primi libri dedicati a Mussolini da Indro Montanelli da subito, sia come scrittore che giornalista, impegnato nella costruzione di una immagine «acritica, decontestualizzata, romanzesca, quasi famigliare del regime littorio», tutta incentrata sull’idea del rispecchiamento tra gli italiani e il duce del fascismo finendo così per estendere, come è stato scritto, «l’assoluzione di Benito […] a tutti gli italiani già fascisti» [Gerbi e Liucci 2006, 232-234]. Montanelli, pur senza essere mai un mero apologeta della dittatura, fu pervicacemente, ancora nella rubrica Stanze su “Il Corriere della Sera” tenuta sino alla morte nel 2001, il capofila di quanti continuarono a coltivare verso il passato fascista, «un sentimento di attrazione misto a rifiuto, di accondiscendenza e dileggio, di nostalgia e recriminazione, collocandosi ben lontano, a ogni modo, da qualsiasi critica radicale e senza appello del Ventennio mussoliniano» [Gerbi e Liucci 2006, 229].

I grandi rotocalchi si inserirono in questo solco, ricordando con insistenza alcuni elementi considerati spendibili, come positivi, tra cui le bonifiche, le città nuove, le prime forme di turismo di massa, le pensioni per i dipendenti pubblici [Baldassini 2008, 52-72]. Rilanciarono così l’immagine del regime come dittatura modernizzante peraltro uno dei temi forti della autorappresentazione del fascismo. A tale repertorio si accompagnò progressivamente anche la sottolineatura del coraggio dei soldati italiani nel corso del secondo conflitto mondiale e la valorizzazione della memoria della guerra di Etiopia, con l’occupazione presentata come una missione civilizzatrice di cui i colonizzati etiopi dovevano alla fin fine essere grati ai colonizzatori italiani [Baldassini 2008, 115-132]. Si manifestò quindi una prudente ma aperta nostalgia per l’idea di una Italia grande potenza europea che in qualche modo il fascismo aveva saputo perseguire almeno fino ai disastri della seconda guerra mondiale. Si trattava tuttavia di un recupero non ideologico del fascismo: in tutta questa produzione Mussolini fu presentato un po’ alla stregua del grande illusionista che, pur non avendo cambiato veramente il carattere degli italiani, li aveva fatti sentire potenti spingendoli a giocare una partita più grande di loro.

Proprio l’idea del bluff e dell’inganno univa questa rappresentazione a quella delle grandi testate nazionali. Il richiamo del sistema dei partiti all’antifascismo e alla Resistenza, fattosi più netto dopo il luglio ’60, non modificò tale narrazione della dittatura. Per certi versi anzi ne radicalizzò la letture riduttiva. Nel 1962 Alessandro Galante Garrone, allora magistrato e docente di storia moderna all’Università di Torino, su “La Stampa” definiva il regime, riprendendo Noberto Bobbio, una «grande fabbrica del vuoto», basata su «un provincialismo stantio», che aveva separato l’Italia dalla cultura e dalla civiltà moderna. Il fascismo, sebbene avesse cercato «di darsi una dottrina, una giustificazione culturale, o altri cercassero di dargliene quasi per una pietosa volontà di “vestire gli ignudi”», non era riuscito a colmare vuoto, se non con la retorica, diventando «il regno della parola». Per questa sua debolezza intrinseca la dittatura era stata egemonizzata «da tradizioni e dottrine che gli erano estranee: dal Concordato al Patto d’Acciaio. Con il venir meno dell’adesione di larghe masse che per un certo tempo lo aveva sorretto, e il tragico aggravarsi della situazione internazionale, il regime, ormai ridotto a una spoglia disseccata, si avviò alla catastrofe» [11].

Come si vede si riconosceva una iniziale presa del fascismo sulle masse, ma si sottolineava anche la superficialità di quel consenso attribuendolo all’arretratezza culturale. Non diverse anche le analisi sulle ragioni di fondo del successo fascista. Rosario Romeo su “Il Corriere della Sera”, recensendo il secondo volume della biografia di Mussolini scritto da Renzo De Felice, insisteva sulla centralità del compromesso del leader fascista «con forze molteplici, dalla corona all’esercito ai grandi interessi economici, ai partiti fiancheggiatori», convinto che quell’accordo avesse finito con lo «svuotare tutte le forze politiche esistenti, compreso il Pnf […] a vantaggio dello Stato e del partito di governo, che finiva per coincidere sempre più, in concreto, con la persona stessa di Mussolini». Romeo insisteva quindi sulla azione tutt’altro che rivoluzionaria del politico romagnolo, propenso, a suo avviso, ad aggirare i problemi con continui compromessi al ribasso, che indebolirono gravemente lo Stato mentre la fascistizzazione più volte proclamata rimaneva pure facciata. Per Romeo in sintesi dalla ricerca veniva fuori un Mussolini «più tattico e manovriero, più “parlamentare” e incline al compromesso più di quanto non possa ammettere chi rimane sotto la suggestione imperiale del duce, trasformatasi in miti non meno deformanti, seppure con segno cambiato, nella polemica dell’antifascismo» [12]. Il senso era chiaro: il fascismo non era stato un fenomeno rivoluzionario e tanto meno quello era il progetto del suo duce, che aveva invece creato un regime politico fondato sul compromesso con altre forze già preminenti con lo Stato liberale.

Analogo il giudizio proposto l’anno prima su “La Stampa”, dal professore di storia americana Ferdinando Vegas. Questi, recensendo il primo volume della biografia mussoliniana sottolineava che veniva confermata alla fine del 1920 la nascita del vero fascismo, quando il futuro duce aveva decido di accantonare «idee e principi, divenendo, da rivoluzionario», lo strumento del «fronte unico conservatore-reazionario della borghesia agricola, di quella commerciale e di quella industriale» [13]. Vegas sarebbe tornato poi sull’idea della continuità tra sistema liberale e fascismo qualche anno dopo, nel gennaio del 1969, recensendo il terzo volume di De Felice dedicato a Mussolini. In quell’occasione scrisse che nel gioco tra intransigenti e fiancheggiatori, «cioè quegli elementi conservatori e moderati che tendevano a condizionare Mussolini ed il fascismo nel senso di una sostanziale restaurazione del vecchio ordine», erano stati questi ultimi a vincere per volontà dello stesso duce, assicurandosi «la possibilità di continuare a tenere salde nelle proprie mani le tradizionali leve del loro effettivo potere, sia politico sia economico, finendo poi col conquistare anche il Pnf» [14].

Tanto “Il Corriere della Sera” che “La Stampa”, attraverso le riflessioni di storici di professione, continuarono dunque a leggere il fascismo in termini di continuità con l’Italia liberale, insistendo sull’immagine di un Mussolini “trasformista”, arrivato ad un accordo di fondo con i vecchi potentati politici ed economici. Nel ‘72 Vegas ribadiva che «la “Marcia” (su Roma nda), come conquista armata del potere ad opera delle forze insurrezionali fasciste, sia da relegare fra le leggende», mentre la vicenda era invece da leggere come «intrigo di vertice» [15].

La stampa di sinistra, e quella comunista in particolare, fornirono una versione ulteriormente esasperata di questo rapporto, insistendo sulla natura reazionaria del fascismo e quindi sulla sua non autonomia come forza politica, anche se non sfuggivano alcuni elementi di novità rispetto al passato. In un articolo dello stesso anno apparso su “Rinascita”, Paolo Spriano invitava a studiare il fascismo, identificandolo con lo squadrismo, partendo dal suo «bersaglio», cioè «tutte le istituzioni della classe operaia, prima come classe vorrei dire, come proletariato urbano e agricolo, salariato, che come movimento», al fine di percepirne «immediatamente […] la tendenza di dittatura aperta della grande borghesia», aspetto che costituiva, a suo avviso, l’essenza intima del movimento. Questo era però da considerarsi lo «strumento nuovo, di unificazione della classe dirigente con gli strati intermedi», che aveva consentito alla borghesia riunita di creare «uno Stato che abolisca tutte le forme della democrazia, che privi le masse della loro autonomia politica e organizzativa, e diventi assai più di prima uno strumento agevole da maneggiare per il capitale monopolistico privato sia dal capitalismo monopolistico di Stato» [16].

Anche Enzo Santarelli leggeva l’avvento al potere di Mussolini come il frutto «del formarsi di un nuovo blocco di potere, ispirato e poi cementato da una nuova borghesia parzialmente eversiva e parzialmente rinnovatrice». La cornice in cui inquadrava l’incontro con le classi dirigenti liberali, considerate le «vere protagoniste di tutto l’affare» restava però quella della «“controspinta” in primo luogo rispetto al movimento popolare, […] della riscossa borghese nei confronti del moto operaio, socialista e democratico», considerando questa vocazione nazionalfascista la caratteristica delle classi dirigenti liberali e della grande borghesia italiana. Per questo, scriveva Santarelli, che «il regime fascista sia stato in primo luogo una dittatura capitalistica è un dato di fatto che dovrebbe essere del tutto scontato» [17]. La semplificazione che una simile lettura comportava, soprattutto rispetto al tema della partecipazione popolare al regime, non trovò sempre concordi gli storici vicini al Pci. Gastone Manacorda, senza negare la dimensione reazionaria del fascismo, invitò a porsi il problema della sua natura di massa, invocando esplicitamente la lezione togliattiana. La sua collaborazione alla trasmissione televisione “Nascita di una dittatura” provocò una vivace reazione, anche giornalistica, dentro il mondo comunista sia di alcuni storici che di dirigenti politici, confermando la difficoltà ad uscire dalla rappresentazione consueta [Rapone 2003, 628-633].

Nello stesso periodo peraltro l’uso del termine fascismo si impose nei media, sulla onda dei movimenti di contestazione nati nel ’68, per indicare qualsiasi sistema dittatoriale caratterizzato dalla repressione del movimento operaio. Per altro in modo provocatorio fu usato non solo connettendolo sempre strettamente, fino ad identificarlo con esso, al capitalismo ma anche per indicare possibili involuzioni autoritarie negli stessi sistemi democratici [Sorgonà 2016, 72-73]. L’esempio più eclatante fu la polemica sul “fanfascismo”, sviluppata dal giornale “Lotta continua”, sull’azione politica svolta da Amintore Fanfani dopo il ritorno alla segreteria della Dc, presentata come potenzialmente antidemocratica e filofascista [Cazzullo 2006 (1998), 198-199]. Ne derivava una profonda confusione sul significato del termine e sul suo legame con una specifica situazione storica.

Tale situazione fu accentuata anche dall’uso che ne fece l’intellettuale più provocatorio del periodo, cioè Pier Paolo Pasolini che, da “Il Corriere della Sera”, costruì gran parte della sua azione “corsara” denunciando il “nuovo fascismo” della società dei consumi. Così Pasolini si esprimeva in un intervista per “L’Espresso”:

Io credo, io credo profondamente, che il vero fascismo sia quello che i sociologhi hanno troppo bonariamente chiamato la “società dei consumi” […]. Questo nuovo fascismo, questa società dei consumi, ha profondamente trasformato i giovani, li ha toccati nell’intimo, ha dato loro altri sentimenti, altri modi di pensare, di vivere, altri moduli culturali. Non si tratta più, come all’epoca mussoliniana, di una irreggimentazione superficiale, scenografica, ma di una irreggimentazione reale che ha rubato e cambiato loro l’anima. Il che significa, in definitiva, che questa società dei consumi è una civiltà dittatoriale. Insomma se la parola fascismo significa prepotenza del potere, la società dei consumi ha bene realizzato il fascismo. [18]

Giustamente è stato notato come, a partire dall’uso pasoliniano, il termine “fascismo” si sia ancor di più svuotato del suo reale senso storico [Roghi 2015, 114-115]. Va tuttavia sottolineato che il discorso pasoliniano riprendeva un giudizio profondamente diffuso a livelli diversi: quello della “impermeabilità” della società italiana al regime e quindi della sua natura parentetica.

Ho visto dunque con “i miei sensi” il comportamento coatto del potere dei consumi ricreare e deformare la coscienza del popolo italiano, fino ad una irreversibile degradazione. Cosa che non era accaduta durante il periodo fascista, periodo in cui il comportamento era completamente dissociato dalla coscienza. Vanamente il potere “totalitario” iterava e reiterava le sue implicazioni comportamentistiche: la coscienza non ne era implicata. I “modelli” non erano che maschere, da mettere e levare. Quando il fascismo fascista è caduto, tutto è tornato come prima [19].

Il fascismo quindi come maschera semplicemente indossata dagli italiani ma incapace di mutarne la coscienza, specie delle masse popolari. Queste per Pasolini erano rimaste “immuni” dal germe della dittatura. «Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili ad uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole», scriveva su “Il Corriere della Sera” nel ‘73 [20].

Così raccontato il fascismo “storico” finiva per essere estraneo al corpo popolare della nazione e nuovamente ridotto a mero prodotto delle classi dirigenti da cui aveva ricevuto i riferimenti di base: «la Chiesa, la patria, la famiglia, l’obbedienza, la disciplina, l’ordine, il risparmio, la moralità» [21].

Emersione ed inabissamento: da De Felice a De Felice (1975-1990)

Ad incrinare questa rappresentazione del fascismo fu, a metà degli anni Settanta, il “caso” De Felice, esploso dopo la pubblicazione nel 1974 del volume sugli “anni del consenso” e, l’anno successivo, dell’Intervista sul fascismo. In quei testi De Felice poneva tre questioni centrali: 1) la natura “rivoluzionaria” del fascismo, e quindi la sua appartenenza al campo della sinistra “progressista”; 2) il ruolo dei ceti medi come classe emergente ed anima del “fascismo movimento”, distinto dal “fascismo regime” conservatore, e destinato ad accompagnarlo fino alla Rsi; 3) il consenso del regime nella società italiana, non ascrivibile alla sola macchina repressiva. Fascismo e nazismo inoltre erano considerati incomparabili per la questione razziale, estranea secondo lo studioso al regime mussoliniano, e per il carattere “moderno” del primo contro quello “tradizionalista” del secondo [De Felice 1997 (1975), 27-42].

L’impatto fu enorme. Si accese una lunga polemica, che travalicò l’ambito specialistico riempiendo le pagine dei giornali dal giugno al settembre del ’75. Il dibattito arrivò anche alla Tv, con una puntata sul secondo canale tenuta il 21 luglio a cui parteciparono, oltre a De Felice, anche Gastone Manacorda, Gaetano Arfè, Aldo Garosci, Gabriele De Rosa e Rosario Romeo [22].

Come è noto, le posizioni di De Felice furono violentemente contestate, specie dagli studiosi collocabili nell’area della sinistra, non solo marxista. Leo Valiani su “Il Corriere della Sera” parlò di eccessiva accondiscendenza nei confronti del fascismo, mentre Nicola Tranfaglia su “Il Giorno” non esitò a definire la proposta defeliciana una operazione politica volta a riabilitare il regime. Giovanna Ferrara, docente di storia antica ed esponente del Pri spiegò, sullo stesso giornale, che, studiandolo dall’interno, si correva il rischio di “comprendere” troppo il regime [23]. Anche gli storici che si richiamavano al marxismo lo criticarono duramente, anche se con alcuni interessanti distinguo, non solo sulla stampa di partito [24]. Analoga la posizione degli studiosi vicini alla sinistra extraparlamentare, anche se non mancarono voci critiche contro le reticenze di certa tradizione marxista [25]. Ci furono anche severe prese di posizione di personalità politiche come Lelio Basso [26]. Le accuse si estesero anche alla “scuola defeliciana”, e più specificatamente ad Emilio Gentile per il suo libro sull’ideologia fascista [27]. Importanti personalità, soprattutto di cultura liberale, come Rosario Romeo e Luigi Firpo, difesero però il biografo di Mussolini denunciando i toni violenti che si stavano usando nei suoi confronti.

Nell’impossibilità di ricostruire il dibattitto nella sua interezza, è utile forse notare un punto importante: anche quando ne condannarono aspramente la delegittimazione, i sostenitori di De Felice, da un punto di vista interpretativo, si mostrarono molto cauti rispetto alle sue proposte. Romeo, pur ribadendo la necessità di discutere «a livello critico» e non attraverso «una reazione isterica, che in più casi ha sfiorato i toni della denuncia e del linciaggio», insisteva sui limiti del consenso al regime: la mobilitazione delle masse si era realizzata «sulla base del totale controllo delle informazioni da parte del potere fascista, e dei limiti sempre più gravi posti a ogni forma di espressione e di dibattito». Su questa via il regime aveva promosso «un consenso» sicuramente «vistoso ed attivistico», ma sostanzialmente «superficiale». Ciò lo rendeva differente dai sistemi autoritari ma restava dubbio che «alla radice del fascismo vi fosse il progetto di un “uomo nuovo”, proiettato verso il futuro, a differenza di quanto accadeva nel nazismo che guardava a modelli del passato» [28]. Romeo si mostrava perciò dubbioso della natura rivoluzionaria del fascismo ed anche, di nuovo, della sua reale capacità di trasformazione degli italiani.

Simile anche la posizione di Luigi Firpo. Su “La Stampa” lo storico delle dottrine politiche, recensendo L’intervista, difendeva il complessivo lavoro di ricerca di De Felice, definito «un’immane fatica di scavo archivistico, di raccolta di testimonianze, di ricostruzione». Polemizzava inoltre con quanti lo contestavano per aver voluto rivendicare «la priorità del documento sull’ideologia, l’istanza di avviare un discorso sempre più storico e sempre meno politico». La distanza interpretativa restava però ampia: pur condividendo l’intento di voler superare la storiografia marxista che riduceva il fascismo ad «una reazione di classe, un colpo di mano di scherani che finirono col prendere la mano al padrone capitalista», per Firpo il movimento delle camice nere era stato animato da un ampio strato di declassati e certamente non da un ceto medio emergente. «Nessuna coscienza di rappresentare un ceto peculiare animò i primi fasci», scriveva, mentre il tentativo di fascistizzazione delle masse, sicuramente esistente, si era collocato su un piano «fantastico ed emotivo». Il fascismo non era andato quindi oltre «una forma di consenso passivo», e l’adesione al regime sarebbe stata sì «diffusa» ma anche «bonaria, tiepida», ma solo «finché esso significò treni in orario, crociere aeree prestigiose, sicurezza nella povertà, gratificazioni retoriche come surrogato del reale progresso» [29]. Non sarebbe mai attecchito invece il mito imperiale, base dell’uomo nuovo fascista [30].

In maniera speculare, non mancarono alcuni critici che mostrarono una attenzione ai temi defeliciani. Alessandro Roversi, storico dell’Università di Ferrara assai vicino al Pci, recensendo nel febbraio del ’75 il volume sugli “anni del consenso” su “L’Unità”, scriveva che la diversità di giudizio complessiva su Mussolini «non ci impedisce tuttavia di riconoscere il grande contributo che questo volume di De Felice reca alla demistificazione di diversi luoghi comuni ed alla necessaria comprensione della vasta popolarità che il fascismo ottenne negli anni trenta e delle sue ragioni profonde». Lo storico proseguiva riconoscendo i tentativi (non riusciti a suo avviso) di creare una classe dirigente fascista ed attribuiva a De Felice il merito di aver dimostrato che «un programma di politica estera l’imperialismo fascista lo generò e lo coltivò, sotto forma di una espansione africana che conferisse al regime un suo prestigio coloniale, da collocare in termini di consenso accanto ai Patti Lateranensi». Non esitò inoltre a parlare di una adesione, nuova e spontanea, quasi totalitaria nei ceti medi, ma significativa anche in alcuni strati popolari, individuandone, anche qui recuperando le Lezioni sul fascismo di Togliatti, la radice nella creazione delle «organizzazioni di massa preposte all’inalveamento e al drenaggio delle aspirazioni e delle spinte provenienti dai lavoratori» [31].

E’ nota inoltre la posizione di Giorgio Amendola, che lontano dall’interpretazione defeliciana, invitò però anche a ragionare sui limiti dell’antifascismo e a fare una ricostruzione del fascismo attenta ai suoi «caratteri specifici» e alle sue «interne contraddizioni» [32]. Lo stesso Manacorda intervenendo nella trasmissione televisiva già ricordata condivise la questione della centralità dei ceti medi e dell’irreggimentazione delle masse nelle strutture organizzative del regime, sia pure rimanendo perplesso sulla sua natura rivoluzionaria [33].

La reazione degli storici vicini al Pci fu quindi più articolata di quanto normalmente si ritenga. Persino nella durissima presa di posizione di Santarelli su “L’Unità”, uscita ad inizio agosto, e che si chiudeva parlando di una «“operazione culturale” che non è dispiaciuta ai settori moderati della nostra storiografia, per ragione di contenuti e per affinità di metodi, e che a quanto pare non dispiace neppure a certi gruppi o gruppuscoli di nostalgici e di oltranzisti», non mancarono alcuni riconoscimenti alle tesi defeliciane. Queste ultime erano infatti considerate di per sé non prive di «un senso se non estremizzate e radicalizzate e rese politicamente tanto assolute», compresa la riflessione sulla creazione «di un “uomo fascista” (e quindi di un “ordine nuovo” nazionalsocialista) che indubbiamente nel fascismo e nei fascismi europei vi fu». Per lo storico comunista De Felice finiva però «per rivalutare il momento ideologico, transpolitico, quasi di palingenesi» di quella ricerca, svalutando così «le strutture e anche certi dati essenziali del fascismo: lo squadrismo, che fu parte qualificante del “movimento”, la repressione che fu parte non meno qualificante del regime» e soprattutto la relazione con il nazismo, da leggersi per Santarelli «nello stesso alveo di crisi dello stato liberaldemocratico europeo, del modello capitalistico», ma anche «nel quadro della lotta per il soffocamento e la distruzione del movimento operaio, come risposta fondamentale alla rivoluzione socialista, risposta che coinvolse anche la democrazia, avvalendosi di più antiche radici reazionarie e di elementi populistici complementari». L’articolo terminava ribadendo comunque l’istanza «di una libera discussione che del resto c’è stata e potrà continuare dall’uno e dall’altro lato» ed insistendo sulle necessità di uscire dall’agiografia anche sul versante dell’antifascismo, confrontandosi con «la corposità del fascismo» sedimentata nella società italiana [34].

Al di là delle posizioni, senza dubbio la querelle portò per la prima volta gli anni della “maturità” del regime al centro della discussione pubblica, proponendo con forza il tema del rapporto tra fascismo e società italiana. Il dibattito finì però per ribadire l’immagine tradizionale del fascismo, “rivelazione”, “reazione” o “rivoluzione” che fosse [Baris e Gagliardi 2014, 323].

Gli storici intervenendo sui giornali vi giocarono un ruolo importante, provando a portare ad un pubblico più ampio riflessioni in qualche modo specialistiche; tuttavia la vicenda segnalò anche l’affermarsi di nuovi strumenti di comunicazione come la Tv, destinati presto a mutare il ruolo stesso degli “accademici”. Questo ultimo, a partire dagli anni Ottanta, non solo risentì della più generale crisi delle grandi visioni universalizzanti che avevano caratterizzato prima l’impegno storiografico, ma mutò anche per via dell’affermarsi di nuovi prodotti di comunicazione storica. Se i giornali rimasero infatti un luogo importante di discussione e di scontro anche sulla storia in quanto il dibattito sul Novecento poteva ancora servire a sorreggere differenti prospettive politico-culturali, tuttavia è indubbio che altri divennero i veicoli di elaborazione di un senso comune sul passato diffuso in maniera più vasta.

In particolare film, documentari, mostre e opere di divulgazione divennero nettamente prevalenti rispetto al passato, anche se già in precedenza giornalisti come Montanelli, Biagi, o Bocca, su diverse versanti, avevano svolto un ruolo di divulgazione di massa molto importante. I prodotti visivi dedicati alla storia apparsi tuttavia si presentavano diversi ed innovativi, perché se da un lato, avvalendosi degli storici “accademici” come consulenti nella loro realizzazione, sembravano ricercare una sorta di “certificazione” della loro lettura del passato, dall’altro restavano costruiti su coordinate e registri stilistici legati al loro specifico genere, producendo quindi una visione estremamente semplificata e decontestualizzata dei temi proposti. Conferma tale cortocircuito proprio il recupero, per certi versi favorito dalla stessa presenza di Renzo De Felice tra i consulenti in alcune di queste produzioni [Tranfaglia 1983, 144], di diverse tematiche legate al suo “caso”, tra tutte il biografismo come chiave di accesso alla storia del regime e il tema della “modernità” del fascismo, che risultavano però in questi prodotti estremamente semplificate e banalizzate.

L’analisi della stampa del periodo conferma questo mutamento complessivo. Le discussioni sui giornali si accesero infatti a partire dalle grandi mostre realizzate sul regime oppure dai film e documentari apparsi sulla Tv nazionale. La mostra Gli anni Trenta. Arte e cultura in Italia, organizzata nel 1982 a Milano, e quella sull’Economia italiana fra le due guerre, tenutasi a Roma, al Colosseo, nell’autunno 1984, scatenarono un grande dibattito [Santomassimo 1982, 145-151; Crainz 1984, 125-135]. Benché formalmente il fascismo rimanesse sullo sfondo, innegabilmente attribuire agli anni Trenta i tratti della modernità, celebrandone l’arte, la crescita industriale e il benessere raggiunto, implicava un giudizio sul regime quantomeno meno attenuato rispetto alla sua dimensione dittatoriale [Baris e Gagliardi 2014, 325]. Quasi in contemporanea realizzate apparvero la trasmissione in cinque puntate Immagini del fascismo. Tutti gli uomini del duce, (di Nicola Caracciolo 1982), in prima serata su Raidue; lo sceneggiato Io e il duce (regia di Alberto Negrin 1985), tre puntate in prima serata su Raiuno; il film Claretta (regia di Pasquale Squitieri 1984), presentato alla Mostra del cinema di Venezia e trasmesso in televisione nel 1985.

Si trattava di opere che fornivano un quadro edulcorato del regime e del suo sistema politico, incentrate sulle vicende private dei protagonisti raccontate con stile romanzesco. Il risultato fu la riduzione della dittatura ad un gigantesco feuilleton, per citare un articolo di Lietta Tornabuoni dedicato “agli uomini del duce”. Intervenendo su “Tuttolibri”, settimanale culturale de “La Stampa”, la giornalista paragonava al più famoso serial americano del periodo, “Dallas”, questo raccontato del fascismo, divenuto «la sottostoria, gli amori, le vicende domestiche e il pettegolezzo» su casa Savoia e la famiglia Mussolini, con il duce del fascismo descritto dai figli «solo come un caro papà, […] ignorandone i crimini politici» [35]. Chiedeva poi conto del fenomeno a due storici come Paolo Spriano e Renzo De Felice, tornando in un secondo articolo sulla stessa trasmissione e di nuovo interrogando altri studiosi sul rischio di questa banalizzazione del fascismo, basata sull’«attenzione al lato umano e agli affetti privati dei protagonisti fascisti», e sulla asserita «continuità dal fascismo al postfascismo nella società italiana», che si stava diffondendo nel paese [36]. De Felice peraltro, indicato confusamente come riferimento di questo filone, intervenne più volte per stigmatizzarne l’approccio, criticando «le iniziative dell’editoria e dei mass media» realizzate in occasione del centenario mussoliniano [37], così come l’assenza di metodo storico in molte biografie di gerarchi del periodo con i leader fascisti ridotti a «personaggi che finiscono per essere tutti un po’ troppo eroi» [38]. Anche più tardi, nel 1990, parlò di «una visione meramente informativa di tipo populista e della quale già si scorgono le prime avvisaglie nei mass-media e anche nel sistema dell’editoria», che avrebbe potuto proiettare «una visione della politica e dello Stato ridotta ad immagine e spettacolo» [39].

Oltre a lui, anche altri si erano sollevati contro questa tendenza. Già nel 1984 Beniamino Placido, prendendo spunto dalla presentazione di Claretta, denunciava una «rivalutazione strisciante del fascismo». Era però soprattutto la motivazione ad essere interessante:

Dapprima ci siamo difesi dal ricordo del fascismo raccontando a noi stessi che noi non c’entravamo. Il fascismo era stato l’impresa tracotante e fortunata di alcuni squadristi manigoldi che avevano preso il potere profittando della colpevole distrazione della classe dirigente liberale. Il popolo non aveva mai detto di sì. Noi non avevamo mai detto di sì […]. Poi gli studi – meritori – della scuola di Renzo De Felice ci hanno costretto alla rassegnazione: sì, un certo consenso al regime c’era stato.

Ci sarebbe stato allora bisogno, spiegava Placido, «di approfondire la riflessione» ma «siccome era (ed è) francamente imbarazzante dover riconoscere che avevamo preso sul serio un tale che parlava di “immarcescibili destini”, abbiamo cominciato a dire, a pensare che il fascismo in fondo non era poi tanto male. Non era poi tanto diverso dai regimi democratici, dal regime attuale» [40]. Placido coglieva dunque un elemento fondamentale: le nuove acquisizioni della storiografia avrebbero richiesto di ripensare la memoria pubblica del paese ma in realtà si stava realizzando un percorso inverso che spingeva, grazie all’incontro tra vecchi nostalgie e nuovi spinte semplificatrici, verso la reificazione di una memoria defascistizzata del fascismo. Nello Ajello, in un articolo sempre del 1984, ispirato dal dibattito televisivo seguito allo sceneggiato Notti e Nebbie ambientato nella RSI, che aveva visto l’ex repubblichino ed intellettuale di destra Giano Accame, (uno dei collaboratori peraltro della “Mostra sull’economia” al Colosseo) inveire contro la storia viziata «dall’ottica dell’antifascismo e della Resistenza», scriveva che:

La “comprensione storica” del fascismo diventa compiacenza postuma. O, peggio ancora, nostalgia: sentimento che con la storia (seria) ha poco a che fare. Ed è un vero peccato. Dalla metà degli anni Sessanta in poi, la storiografia italiana sul periodo fascista ha ripudiato gli eccessi ideologici dell’immediato dopoguerra, distaccandosi da un certo apriorismo d’indole marxista o salveminiana, che in quella stagione storica vedeva tutto nero, pregiudizialmente, senza potersi consentire il necessario distacco. Uno studioso del livello di Renzo De Felice ha fatto moltissimo per illuminare quei vecchi scenari, dimostrando che è passato il tempo di pronunciare invettive ed è venuto il tempo di capire. Ma al grosso pubblico, di questa razionalizzazione storiografica arriva un’eco stravolta, una “Vulgata” fuorviante. Gli emuli di De Felice, che ormai sono un esercito, qualche volta perdono il senso delle proporzioni.

Si assisteva infatti ad una «continua, strisciante, untuosa riabilitazione del fascismo», che «i mass media […] propagano con una sorta di noncuranza», dando spazio ad un finto «obiettivismo» che in realtà «vuol sostituire alla valutazione polemica del Ventennio una sorta di consensualità accomodante e bonaria: abbiamo sbagliato tutti – […] – noi e voi (soprattutto voi), è passato tanto tempo, basta con i litigi». A questo fine di pacificazione ed equiparazione si riproponevano vecchi miti assolutori:

Può accadere, ad esempio, che si cominci a considerare petulante o “datato” chi giudica un semplice obbrobrio la campagna antisemita lanciata in Italia nei tardi anni Trenta. Di solito, la battuta con la quale si sparge una sorta di nebbia consolatoria su quel sordido capitolo della nostra storia è che “il popolo italiano era contrario” e che la predica proveniente dall’ alto in materia di discriminazione o di persecuzione razziale rimase nel campo delle velleità (ma poi intervennero i tedeschi...). Basta pensare – si aggiunge – agli atti di umanità, e perfino di eroismo, che la grande maggioranza dei nostri connazionali di “razza ariana” fece a favore degli israeliti. Così si commettono due truffe in una volta sola. In primo luogo si dimentica che il regime fascista profuse ogni impegno per indurre i sudditi renitenti ad adottare comportamenti razzistici. Contemporaneamente, si compie l’acrobazia dialettica di accreditare quasi a merito del regime stesso quello spirito di tolleranza e di umanità che tanti italiani esercitarono a suo dispetto e trasgredendo le sue leggi [41].

La stampa pose quindi, o almeno lo fecero alcune sue voci, la questione di una riflessione più seria sul fascismo ma il processo di spettacolarizzazione e semplificazione non si arrestò.

La conferma venne proprio dal secondo “caso” De Felice. Le polemiche questa volta scoppiarono dopo una intervista con Giuliano Ferrara, apparsa su “Il Corriere della Sera” il 27 dicembre 1987, e pubblicata con il titolo Perché deve cadere la retorica dell’antifascismo. A quella ne seguì una seconda il 7 gennaio ’88, La Costituzione non è certo il Colosseo, che rispondeva ad alcune critiche ricevute il giorno precedente nel dibattito televisivo Seppellire l’antifascismo? durante la trasmissione di Rai Tre “Linea rovente”, condotta sempre da Ferrara. In quell’occasione, oltre a De Felice, si erano confrontati i suoi sostenitori (Paolo Mieli, Ernesto Galli Della Loggia, Lucio Colletti) ed alcuni contestatori (Gianfranco Pasquino, Paolo Spriano, Pietro Scoppola, Enzo Forcella). Come si vede, rispetto al 1975 il percorso era invertito. Non più un saggio storico a scatenare la discussione, ma una intervista alla stampa, subito però ripresa da una trasmissione televisiva, alla quale, accanto agli storici “accademici”, partecipavano oramai opinion makers e giornalisti di primo piano.

Nello specifico il tema dell’intervento defeliciano era in realtà la riforma costituzionale, ma lo storico, per argomentare le sue posizioni, tornava sul fascismo, sostenendo che in realtà nel nostro paese non si era mai andati oltre «niente di diverso dal vecchio stato giolittiano e liberale» e aveva richiamato anche la qualità della burocrazia del regime e le sue realizzazioni passate all’Italia repubblicana. Istituiva così su una lunga linea di continuità nella storia nazionale tra regimi diversi. Paradossalmente considerando l’Italia repubblicana «troppo simile a quella fascista» e questo ultimo al contempo «filiazione diretta di quella liberale», i temi “classici” del De Felice studioso, cioè il fascismo come movimento autonomo, moderno e rivoluzionario, sparivano nel De Felice attore pubblico riducendosi il regime ad uno Stato amministrativo autoritario in mano ad un dittatore coadiuvato da tecnici per caso finiti in camicia nera [Baris e Gagliardi 2014, 330]. Della precedente impostazione restava solo l’incomparabilità con il nazismo, ribadita per la pretesa estraneità del fascismo al cono d’ombra dell’Olocausto, un tema che come abbiamo visto costituiva uno dei cardine della lettura “debole” del regime mussoliniano [Focardi 2014, 55-74].

Senza voler qui analizzare i motivi di questo salto nella rappresentazione pubblica del fascismo da parte di De Felice, è indubbio che questo suo posizionamento legittimò la memoria “moderata” del fascismo, che aveva lunghe radici, ma che a sua volta la spettacolarizzazione della storia della dittatura rinsaldava e riplasmava in un nuovo clima politico e culturale. Gli anni Ottanta si chiudevano così rilanciando una immagine banalizzante dell’esperimento fascista, che sarebbe continuata nel corso del tempo, anche se il dibattito pubblico, negli anni immediatamente successivi, partendo dal problema del fascismo si sarebbe progressivamente spostato sul tema dell’antifascismo e della Resistenza come elementi della debole identità nazionali degli italiani, ponendo ulteriori problemi al panorama memoriale della Repubblica e alla capacità dei giornali di raccontarne la complessità.


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Risorse online


Note

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2. G. Gonella, Giustizia, “Il Popolo”, 30 aprile 1945, in Tedesco 2007, 31.

3. G. Gonella, Nemesi,” Il Popolo”, 29 aprile 1945, in Tedesco 1997, 186.

4. Il Primato dello Spirito, “Il Popolo”, 23 marzo 1947, in Tedesco 1997, 186.

5. L. Salvatorelli, Luci ed ombre del 25 luglio, “La Stampa”, 25 luglio 1953.

6. L. Salvatorelli, Trent’anni, “La Stampa”, 28 ottobre 1952.

7. P. Serini, Una storia del fascismo, “La Stampa”, 15 luglio 1953.

8. Ibidem.

9. Pubblicato originariamente nel 1950 in “Belfagor”, quindi in Alatri 1971 (1956), 59.

10. E. Vittorini, I giovani non sono stati fascisti, “l’Unità” 5 gennaio 1946 e R. Lombardi, 25 Aprile, “l’Avanti!”, 8 settembre 1946, in Tedesco 1997a, p. 49

11. A. Galante Garrone, Che cosa era il fascismo, “La Stampa”, 15 marzo 1962.

12. R. Romeo, Mussolini il fascista, “Il Corriere della sera”, 4 febbraio 1967.

13. F. Vegas, Nel Mussolini “rivoluzionario” già si avvertono il fascismo e la dittatura, “La Stampa”, 7 aprile 1965.

14. F. Vegas, Così il fascismo diventò regime, “La Stampa” 19 gennaio 1969.

15. F. Vegas, La “Marcia” che non ci fu, “La Stampa”, 27 ottobre 1972.

16. P. Spriano, Lo squadrismo contro la classe operaia e le sue istituzioni, “Rinascita/Il contemporaneo”, 42, 1972, 17.

17. E. Santarelli, La vocazione nazionalfascista delle classi dirigenti italiane, in Ivi, 18-19.

18. P.P. Pasolini, Fascista, intervista a Massimo Fini, “L’Europeo” 26 dicembre, 1974, in Pasolini 2008 (1975), 233.

19. P.P. Pasolini, Il vuoto di potere in Italia, “Il Corriere della Sera”, 1 febbraio 1975, in Pasolini 2008, 131-132.

20. P.P. Pasolini, Sfida ai dirigenti della televisione, “Il Corriere della Sera”, 9 dicembre 1973, in Pasolini 2008, 24.

21. P.P. Pasolini, Il vuoto del potere in Italia, in Pasolini 2008, 129-130.

22. Gli interventi si possono leggere ora in: Un dibattito sul fascismo, “Mondo contemporaneo, 2006, 2, 144-162.

23. L. Valiani, No, il fascismo fu proprio nero, “Il Corriere della Sera”, 5 luglio 1975; N. Tranfaglia, La pugnalata dello storico, “Il Giorno”, 6 luglio 1975; G. Ferrara, Il fascismo? C’è il rischio di capirlo troppo, “Il Giorno”, 8 luglio 1975.

24. P. Alatri, Il nero c’è ma non lo vede, “Il Messaggero” 8 luglio 1975; E. Santarelli, L’interpretazione del fascismo, “l’Unità”, 5 agosto 1975; G. Santomassimo, Senza dubbio fu reazione, “Rinascita/Il contemporaneo”, 35, 1975, 29-30.

25. A. D’Orsi, Le tesi sul fascismo di De Felice sono l’espressione di una parabola di destra, “Il quotidiano dei lavoratori”, 29 luglio 1975; C. Pavone, De Felice: il fascismo incomprensibile, “Il Manifesto”, 20 luglio 1975.

26. L. Basso, Quanti errori ed omissioni nel suo fascismo, “Il Giorno”, 12 luglio 1975.

27. G. Santomassimo, L’ideologia del fascismo, “l’Unità”, 16 ottobre 1975.

28. R. Romeo, No al linciaggio, “Il Giornale”, 19 luglio 1975.

29. L. Firpo, Ristudiando il fascismo, “La Stampa”, 18 luglio 1975.

30. Lo storico intervenne nuovamente nella polemica, di nuovo difendendo De Felice, ma anche confermando alcune differenze interpretative: L. Firpo, I due fascismi, “La Stampa”, 20 agosto 1975.

31. A. Roversi 1975, Il fascismo negli anni Trenta, “l’Unità”, 19 febbraio 1975.

32. G. Amendola 1975, Per la storia dell’antifascismo, “l’Unità”, 20 luglio 1975.

33. Per la posizione di Manacorda vedi: Un dibattitto sul fascismo, cit.

34. E. Santarelli, Le basi del fascismo, “l’Unità”, 7 agosto 1975.

35. Tornabuoni L. 1982, E adesso si scopre nel fascismo un feuilleton alla Dallas, “Tuttolibri”, 11 dicembre.

36. Ead. 1982, Mussolini: un videogioco, “La Stampa”, 22 dicembre.

37. Ricci A. G. 1983, Ma quante facce, “Il Messaggero”, 19 gennaio.

38. Lugaresi G. 1985, Troppi eroi nelle biografie, “Il Gazzettino”, 11 aprile.

39. Romeo E. 1990, Quando la storia diventa spettacolo, “Il Tempo”, 13 marzo.

40. Placido B. 1984, “La Repubblica”, 27 settembre.

41. Ajello N. 1984, Nero al nero, “La Repubblica” 6 dicembre.